Tempo e Spazio: illusione e Realtà

Nella precedente congiunzione eliocentrica di Venere e Giove, abbiamo pubblicato la prima parte di un estratto dal testo inedito “Seminari sull’Armonica” di E. Savoini, cui facciamo seguito a completamento. Il testo a cui si riferisce il commento è riportato nell’articolo precedente.

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Lo Spazio e il Tempo

Si pensa che spazio e tempo siano difficili da comprendere e conoscere: il secondo specialmente. La grandiosità di questi due elementi sconcerta l’uomo. Senza sapere dove, molti pongono confini inconsapevoli sia all’uno che all’altro. Si figurano confusamente un tempo iniziale, a partire dal quale si contano le età, e un lontano istante ultimo; e lo spazio che pensano è anch’esso in qualche modo circoscritto.

Lo spazio che l’uomo immagina riflette in qualche modo il suo concetto di orizzonte. Sembra pensare che lo spazio universale finisca in un orizzonte, come lo spazio individuale di ciascuno. Quella linea enigmatica gettata attorno a noi è inafferrabile, elusiva, ma reale; si sposta con noi, si allarga o restringe a seguito del nostro salire o scendere. Poiché nessuno la può raggiungere, nessuno può evadere dal suo incanto.

Su questo concetto, di orizzonte, sarà bene prima o poi riflettere con decisione. E’ un simbolo troppo importante per essere trascurato, e forse lo studio spregiudicato delle sue qualità, sia costanti che variabili da punto a punto, porterà a conoscere  molte cose, note in tempi antichi, di sé e della vita. Quel cerchio magico è il luogo d’incontro delle potenze terrestri, proiettate nello Spazio, e delle celesti, calate dalle loro sublimità. Deve quindi esplicare molti rapporti, e dare direzione e senso agli eventi e ai ritmi della vita umana. Ma gli uomini oggi non curano queste indagini, e l’orizzonte, pur così affascinante e sempre presente in ogni loro manifestazione, finisce per essere il confine, accettato e lontano, del loro spazio. Quest’idea di limite si proietta così anche allo Spazio cosmico: un termine lontanissimo, su cui è inutile o inopportuno speculare.

Il tempo come concetto e percezione, grava anch’esso sull’intelligenza umana come un coperchio. Inteso com’è, come avente origine e fine, pone degli estremi alle esperienze di vita dell’uomo: apre e chiude, inizia e interrompe. La nascita e la morte d’un uomo o d’un universo stanno nei limiti di un orizzonte temporale. Questo però – a differenza di quello spaziale che in certo modo è sempre ispezionabile e può variare,  senza dissolversi, a volontà dei suoi prigionieri – è misteriosamente precluso alle interrogazioni. La morte giunge fatale, se non inattesa come la nascita. Il tempo sembra consumarsi a “velocità” variabile; e a rigore ogni istante può essere l’ultimo per tutti e tutto.

Così pensano gli uomini attorno a noi, nel regno della quantità. Sulla dualità di tempo e spazio si sono ammucchiati pesanti pregiudizi, duri a smuovere non perché siano una costruzione salda, ma perché confusamente interconnessi. Ma, a parer nostro, finché si accetta di rimanere circoscritti da un orizzonte visibile ma inesplorato, e di soccombere a limiti di tempo, non si andrà certo lontano nello spazio, né si lasceranno veri frutti duraturi.

Ci pare di suprema importanza aggredire spiritualmente queste limitazioni, con un mezzo o un altro: studiando le qualità dell’orizzonte e dello spazio che esso sembra chiudere intorno a noi, come punti coscienti di una figura; o con affermazioni sulla natura del tempo, che lo svuotino di potenza. Se poi, come è legittimo, queste affermazioni e scoperte risulteranno solo tappe e soste di poco conto, si sarà pur sempre smosso il pensiero, individuale o collettivo, da un gravissimo letargo.

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Questo paragrafo del Trattato di H.K. (1) offre occasione propizia per esprimere, con qualche forza e in breve, una reazione all’inerzia delle opinioni umane contemporanee a proposito di spazio e tempo.

Introducendo le sue argomentazioni, che mirano a presentare in senso armonico la reciprocità fra tempo e spazio, l’Autore, senza volersi addentrare in speculazioni filosofiche, usa questa frase: “nello spazio ‘siamo’, nel tempo ‘diveniamo’”. E’ la semplice formulazione di una verità poco compresa, e può essere eletta a sostegno delle nostre affermazioni.  (Va detto che queste non pretendono dimostrare quanto asseriscono: ma si rivolgono a quegli strati della mente cui non occorrono prove).

Nella realtà, l’uomo è.

Il suo divenire è illusorio. E poiché è nello Spazio, questo è la sede stessa della realtà.

Il tempo è irreale come il divenire.

Si deve quindi negare che spazio e tempo siano realtà complementari o congiunte in rapporto reciproco.

Quanto più esplorando si sale, tanto più vero e vivente si manifesta lo Spazio: l’orizzonte non solo s’espande, ma s’accende di qualità mirabili, e da linea di demarcazione muta in uno strumento di contatto. Il tempo, al contrario, non tarda a mostrare la sua falsità, fonte di innumerevoli inganni. Non c’è rapporto fra essi, come non c’è relazione fra realtà e illusione.

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 Affermato dunque – anche se non dimostrato – che lo Spazio è un principio  e il tempo un concetto irreale, e che quindi non possono sussistere rapporti fra essi di alcun genere, non resta che scendere a studiare le forme dell’illusione, che pure sono divinamente capaci di trasmettere un contenuto reale.

A commento del terzo paragrafo abbiamo già detto che è il concetto di distanza (o lunghezza) l’elemento illusorio che nella percezione umana introduce uno spazio irreale e finito. E’ questo un fortissimo baluardo, oltre il quale non è certo agevole passare. Nella realtà tutto è infinito, e altro non esiste. Nella percezione umana, invece, tutto sembra finito, o destinato a un termine. Solo alcuni concetti geometrici o aritmetici sfuggono a questa norma, ma solo in apparenza. La serie dei numeri reali, ad esempio, si dice infinita; ma questo termine è improprio, e meglio sarebbe dire “indefinita” – riservando il nome di Infinito solo all’Infinito.

La distanza introduce dunque, nel concetto umano di spazio, dimensioni e limiti. E’ importante notare che, ciò fatto, ogni conquista diventa difficile; ogni viaggio pericoloso; ogni spostamento faticoso; ogni esplorazione incerta. Il cosmo, con i suoi grandi fuochi, si allontana, poiché la coscienza è afferrata dalla distanza. Il microcosmo, con le sue luci, si allontana, perché la coscienza è sconvolta dalle distanze grandissime come dalle minime – e l’uomo s’arrischia solo in spazi modesti, su distanze, per così dire, “organiche”, in quanto dipendenti dalle possibilità di un organismo corporeo. Ma proprio questa idea di distanza dilata l’universo, e finisce per suggerire l’Infinito.

Così è delle illusioni, cioè delle forme. Nascondono, ma solo per rivelare con immensa potenza il loro contenuto prezioso. La distanza, che dapprima lega, chiude e separa, è sicuro presagio dell’infinità dello Spazio. Stretto dall’orizzonte, l’uomo scopre che salendo lo costringe a dilatarsi, e che non c’è limite alle sue altezze. In alto non c’è orizzonte per nessuno. In verità, ogni coscienza è valutabile dai suoi orizzonti!

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 Il tempo è immediata consegna della distanza, e questo, essendo un rapporto di dipendenza, è univoco. Anche per questo verso il tempo rivela di non essere un principio, ma di discendere da una forma di Spazio, che è la distanza.

Progenie di questi concetti sono le forme composte, come i valori fisici di velocità, accelerazione, potenza e frequenza, e in genere tutte le grandezze fra le cui dimensioni compare il tempo.

In questo campo, che è irreale, ma che sembra pratico, la scienza odierna, che è profana, coglie vittorie e fa conquiste. Non deve però essere lontano il giorno (frase ambigua!) che invece di limitarsi a misurare quanto” due oggetti sono distanti, si acconci a valutare “come” lo siano. Distanze uguali per quantità non lo sono affatto per qualità. E ciò, naturalmente, anche in senso banalmente fisico. Cento chilometri orizzontali sono ben diversi, per qualità, se sono verticali; e anche fra le distanze orizzontali esistono innumerevoli differenze di qualità. Ne consegue che i “tempi”, e le grandezze combinate e derivate, sono anch’essi di qualità essenzialmente varia da caso a caso.

Lo studio dell’Armonia, che è sacro, consente appunto di percepire e valutare le qualità, e operando su rapporti puri di numeri e suoni, di estrarre la realtà chiusa nelle forme. E’ questo appunto, come s’è già detto, il suo potere benefico. In questi studi non si può prescindere dalla coscienza. Poiché è proprio l’armonia che consente, quand’è raggiunta, di reagire alla forza dell’illusione, e di eliminare, per il valore magico dei rapporti e delle misure, gli elementi fittizi e irreali, liberando la coscienza. Già la stessa parola “rapporto” o “misura” è sinonimo di coscienza, purché ci consenta di introdurre le qualità delle forme – senza cui il mondo, come si vede, non è che un mirabile, ma stupido congegno meccanico.

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Dalle pagine di H.K. e dal concatenarsi preciso delle sue deduzioni, tempo e spazio appaiono come variabili per natura e qualità, e reciproci, interdipendenti, complementari. Lunghezze e frequenze hanno, in un certo senso, egual valore, ed il loro comportamento si può dire simmetrico. Accettate queste premesse – ma senza dimenticare che procedono da concetti irreali – tutto si svolge e si snoda.

E’ comunque notevole, e non privo di senso, il fatto che, mentre esiste uno strumento semplicissimo per studiare i rapporti di suono in base alle lunghezze (il monocordo),   non se ne conosce un altro di corrispondente chiarezza per esaminare armonicamente le frequenze. Inoltre va considerato che gli studi e gli esperimenti d’armonia sono per la massima parte basati sui rapporti di lunghezza. Il tempo, cioè le frequenze, è molto più elusivo. Del resto, una oscillazione di frequenza 1:

e un’altra di frequenza 2:

in che differiscono? Nella forma. Una volta raffigurate con una forma di Spazio, il tempo dilegua, e i valori e le qualità dello Spazio bastano a descriverle compiutamente.

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Quando nella sua coscienza prevale l’aspetto spazio,  l’uomo è nomade. Lo spazio gli appare come indefinito, cedevole, prospettico. Vive allora con un senso del tempo uniforme e di “velocità” costante.

Se al contrario predomina in lui la coscienza del tempo, inevitabilmente lo spazio assume caratteristiche diverse, e diviene monotono, uniforme, stabile, definito. E’ la visione odierna della grande maggioranza, composta di “residenti”. Per essi il tempo è prospettico, e ne sentono il variare della “velocità” in ogni circostanza.

Ma le categorie umane non sono in coscienza così rigide come quelle dell’anagrafe. In ogni evento, il nomade e il residente si contrastano in ciascuno; e ciò nei popoli ha forse un corso ritmico, imposto da cicli esterni e più grandiosi. Ma è un fatto che nel deserto o in alto mare, tempo e spazio hanno per il viaggiatore qualità diverse che quando ha stabile residenza.

Si dice che in coscienza l’uomo sia “senza fissa dimora”.  Se è vero, cioè se nell’intimo prosegue un suo viaggio, è dunque nomade. Lo Spazio lo vince; il tempo svanisce. Lo Spazio gli svela prospettive sempre nuove, che egli impara a interpretare e amare come suoni e rapporti, in altre parole, come messaggi. Rivolto a orizzonti sempre più vasti, in comunione con lo Spazio pervaso di fuoco e di vita, segue le vie dei mondi lontani, senza possessi e senza tempo.

 

 

Per deserti, mari e monti

   trascorrete in un soffio.

E là ci incontriamo, faccia a faccia.

Non c’è distanza. Il tempo non esiste.

Il potere della conoscenza è svelato.

(Foglie del Giardino di Morya I , § 328 – ed. Nuova Era)

 

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(1) il testo a cui si fa riferimento è pubblicato nel precedente articolo
Le immagini sono a cura della redazione
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