Ragione

Glossario – Ragione

 

Etimo secondo TP

 

Da latino ratio, che significava primariamente “conto”, “calcolo”, e poi “pensiero, ragione”, “motivo, causa”; si osserva che il termine latino dà origine anche a “razione”. il termine deriva dal participio passato, ratus, del verbo reri, pensare, ritenere, stabilire, la cui origine non è del tutto accertata, ma che con ogni verosimiglianza attiene al campo della fondamentale radice indoeuropea *Ṛ-/*AR-/*RA-, *RI-, che esprime il moto verso l’alto, il moto per unire, il moto in armonia con l’ordine: anche i termini “rito” e “aritmetica” hanno lo stesso etimo.

 

Ragione significa Pensiero ordinante

 

Nel Lambdoma Luce la definizione è: La Ragione è il Movente originario (1.6)


Treccani

 

ragióne s. f. [lat. ratioonis (der. di ratus, part. pass. di reri «fissare, stabilire»), col sign. originario di «conto, conteggio»]. –

1.a. La facoltà di pensare, mettendo in rapporto i concetti e le loro enunciazioni, e insieme la facoltà che guida a ben giudicare, a discernere cioè il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, alla quale si attribuisce il governo o il controllo dell’istinto, delle passioni, degli impulsi, ecc.; può equivalere a giudizio, discernimento, logica, ma ha sign. più ampio e generico e intonazione più familiare: il possesso della r. distingue l’uomo dagli animali; parlare, pensare, agire, comportarsi secondo r., o conforme a r.; bisogna vincere l’ira con la r.; convincere, persuadere con la forza della r.; perdere il lume della r., nell’ira, nel furore, ecc.; avere l’uso della r.; smarrire, perdere, riacquistare l’uso della r., o, semplicem., la r.; essere nell’età della r., avere superato l’infanzia (anche ironicam., a chi dimostra di farne poco uso). In contrapposizioni: la fede arriva dove non può arrivare la r.; làsciati guidare dalla r. e non dall’istinto; i peccator carnali, Che la ragion sommettono al talento (Dante); Cauta in me parla la ragion: ma il core, Ricco di vizj e di virtù, delira (Foscolo).

1.b. Nel linguaggio filosofico, il termine, provenendo dal lat. ratio come traduzione (Cicerone, Lucrezio) del greco lògos (v.), ne mantiene il duplice significato di ragione e discorso, determinandosi in vario modo come la facoltà di conoscere attraverso la parola e il discorso piuttosto che mediante l’intuizione; a tale proposito, nel pensiero medievale, e in partic. in san Tommaso, è l’attività argomentante in qualche modo sottordinata alla conoscenza intuitiva propria dell’intelletto. Nel pensiero moderno, e in partic. nel razionalismo (v.), si precisa come la facoltà suprema del conoscere, come calcolo, come deduzione compiuta su termini universali a partire dai dati dell’intuizione, una volta che si sia individuata la matematica come il modello più perfezionato di metodo filosofico; nel pensiero kantiano, il termine, designando l’organo della legge morale, non condizionato da contenuti, torna a contrapporsi all’intelletto, inteso come organo della conoscenza sensibile; nel pensiero hegeliano, la ragione è la vera artefice del sapere assoluto in quanto, ricomprendendo l’intelletto, ne supera le astrazioni per giungere all’universale concreto. In partic., r. pura, quella che, secondo Leibniz, non ammette nel ragionamento definizioni che non siano conosciute a priori: Critica della r. pura (Kritik der reinen Vernunft, 1781) e Critica della r. pratica (Kritik der praktischen Vernunft, 1786), titolo delle principali opere di Immanuel Kant (1724-1804) nelle quali il filosofo tedesco tratta dell’uso teoretico o speculativo e, rispettivamente, dell’uso pratico o morale della ragion pura, occupandosi la «ragion pura teoretica» degli oggetti della conoscenza e la «ragion pura pratica» dei moti che determinano la volontà e quindi l’agire. Principio di r. sufficiente, principio formulato da G. W. Leibniz (1646-1716) in opposizione al principio di contraddizione: mentre quest’ultimo esprime, con riferimento a una concatenazione logica, la necessità (logica) del suo manifestarsi (pena la contraddizione, appunto), la ragion sufficiente, relativamente a una successione di fatti contingenti, esprime l’esigenza che ciascuno sia giustificato razionalmente una volta che sia ricondotto alla sua causa (necessità causale).

1.c. Personificata: ascoltare la voce della r.; la retta r. vorrebbe che …; il culto della dea Ragione, durante la rivoluzione francese, il tentativo (promosso tra il 1793 e il 1794 dai rivoluzionarî più radicali e anticlericali, ma poi soffocato da Robespierre) di sostituire la religione cristiana con la fede illuministica nella ragione umana onorata nei suoi rappresentanti (filosofi, benefattori, eroi civili).

2.a. ant. Discorso condotto secondo ragione; ragionamento, esposizione ragionata: Maestro, assai chiara procede La tua r., e assai ben distingue Questo baràtro (Dante). Talora, anche, discorso in genere: Ma tosto ruppe le dolci ragioni un alber che trovammo in mezza strada (Dante). Più particolarm. (dal provenz. razo), tema di un componimento poetico: Canzon, chi tua ragion chiamasse obscura … (Petrarca); e anche l’esposizione prosastica che può precedere una poesia: propuosi di dire uno sonetto, ne lo quale io parlasse a lei, e conchiudesse in esso tutto ciò che narrato è in questa r. (Dante). Ragionamento significa anche nella locuz. pigra r., con cui si traduce talora il lat. ignava ratio, meglio noto come pigro sofisma (v. pigro).

2.b. Argomentazione o dimostrazione, prova o argomento, di cui ci si vale in un ragionamento per persuadere, difendersi o difendere, confutare: lascia che dica le mie r. e ti persuaderai; prima di decidere, devi ascoltare le sue r.; le r. che porta non sono convincenti; prima con vere r. difender la fama mia e poi con fatti (Boccaccio); esporre, proclamare (fam. cantare) le proprie r.; r. chiare, lampanti, insussistenti, magre, futili, sciocche, avventate, infondate; è inutile discutere con lui, non sente, non intende ragione (o ragioni), non vuole ascoltare consigli, preghiere, argomenti, prove, tanto è ostinato nella sua idea o nel suo sentimento; e in frasi fig.: il cuore, lo stomaco non intende ragioni. Frequente la locuz. a ragion veduta, considerati tutti i punti di vista, gli aspetti della questione, dopo esauriente riflessione: mi son deciso a ragion veduta; per estens., di proposito, intenzionalmente, con piena consapevolezza: l’ho fatto a ragion veduta.

3.a. Il fondamento oggettivo e intelligibile di qualche cosa, ciò per cui una cosa è o per cui una cosa si fa; e quindi causa, motivo legittimo, che spiega o giustifica un fatto: avevo le mie buone r. per agire così; se ti è antipatico, non è una buona r. per parlarne male; non mi pare una r. sufficiente; questa non è una r. seria; nessuno ha capito la vera r. del suo rifiuto; avevo dunque r. di stare in guardia; i tuoi timori non hanno ragion d’essere, non sono giustificati; addurre, portare delle buone r., delle r. valide, ottime; ha chiesto un congedo per ragioni di famiglia, di salute; parlare, agire per ragioni di opportunità; cambia idea da un momento all’altro senza una r. al mondo; sono stato indotto a rinunciare da r. strettamente personali; per l’identica r., per il medesimo motivo. In frasi fam.: non ci vado per la semplice (o più efficacem. per la semplicissima) r. che non ne ho voglia; interrogando sul motivo di un comportamento: e la r.?; e la r., se è lecito?, se ne può saper la r.?; frequente la locuz. ragion per cui, con valore di congiunzione conclusiva («e perciò»): sei uno sciocco, ragion per cui non voglio discutere con te. Farsi una r. di qualche cosa, dolorosa o spiacevole, rassegnarsi ad accettarla come un fatto, dominando il dolore o il disappunto con la riflessione, riconoscendone l’inevitabilità: ha pianto per molto tempo il marito morto, ma ormai se ne è fatta una r.; con sign. simile, darsi r., convincersi, persuadersi: datevi r. che le cose sono così e non possono mutare. Talvolta al senso di causa si mescola quello di origine: vorrei saper la r. del suo risentimento; non è facile capire le r. di certi fatti economici; più esplicitamente, le r. ultime delle cose, le cause prime, i principî originarî; ultima r. (cfr. lat. ultima ratio), anche nel senso di ultima soluzione, estrema risorsa.

3.b. In alcune locuz. significa, più particolarm., giusto motivo, giusta causa: a r., con r., per un giusto motivo, quindi giustamente, opportunamente: fu rimproverato a r.; a r. lo hanno cacciato dall’impiego; è con r., con piena r., che abbiamo opposto un rifiuto; a maggior r., a più forte r. (calco dell’espressione fr. à plus forte raison), tanto più: se è vero che tuo padre è malato, a più forte r. dovresti comportarti bene per non affliggerlo; meno com., nello stesso senso, di r., che compare oggi quasi esclusivam. nella locuz. avv. di santa r., propriam. com’è o com’era giusto, ma intesa di solito col senso di assai, grandemente, abbondantemente: lo picchiarono di santa r.; piove di santa ragione. Al contrario, senza r., senza alcun motivo giusto o plausibile: se l’è presa con me senza r. (più efficacem., senza una r. al mondo). Più com. in altre frasi: se taccio ho le mie r.; avrà le sue buone r. di non volerlo vedere; se ti ha fatto chiamare, ci sarà la sua r.; non c’è r., non vedo r. (anche, non c’è o non vedo nessuna r.) di prendersela tanto. Ormai ant. le locuz. è ragione, è di ragione, è giusto (con proposizione soggettiva o come inciso): Ragion è ben ch’alcuna volta io canti (Petrarca); sarìa di r. che tu provvedessi in modo che eglino fossero felici per necessità (Leopardi).

4.a. Diritto (soggettivo), in senso generico e non tecnico: far valere le proprie r., obbligare altri a riconoscere i nostri diritti, con la persuasione, con la forza, o ricorrendo alla giustizia: farò valere le mie r. in tribunale. In alcuni casi, ha sign. più vicino a esigenza: le r. della scienza, dell’arte, della critica; per r. metriche; le r. del cuore contano più che gli interessi pratici; in partic., ragion di stato, espressione affermatasi, verso la metà del Cinquecento, nella teoria e nella prassi politica per designare l’interesse dello stato (soprattutto in quanto rivolto alla propria conservazione), considerato come unico criterio di valutazione e azione politica, e al quale pertanto andrebbero sacrificati o almeno subordinati, perché estranei, i principî della morale. In altri casi (non com.), si avvicina a spettanza, competenza: è di sua r. interessarsi a questi problemi; non chiamarmi in discussione, non sono cose di mia ragione. Ant., avere r. in (o sopra) una persona o cosa, avere su essa qualche autorità, avere il diritto di dominio, di proprietà: che il primo signore niuna r. avesse più nel suo servidore (Boccaccio); quindi, cedere le proprie r. su una cosa, i proprî diritti. In senso estens., sono com. le locuzioni a chi di r., a chi ha il diritto di saperlo (e il dovere di provvedere in merito): riferirò io il fatto a chi di r.; aver r. di qualcuno, propriam. far valere il proprio diritto su di lui, e quindi vincerlo, imporsi a lui (anche con la forza): la battaglia fu dura, ma alla fine i nostri ebbero r. dei nemici; con la sua robustezza e agilità, ebbe presto r. dell’avversario; con la pazienza avrò r. della sua ostinazione; fare, rendere di pubblica r. libri, scritti, notizie, divulgarli fra chi ha il diritto di conoscerli, giudicarli, criticarli, e quindi, in genere, diffondere, far conoscere; analogam., il fatto è ormai di pubblica r., è noto a tutti, non è più un segreto.

4.b. In contrapp. a torto, il buon diritto, cioè il giusto nell’agire, il vero o il giusto nel pensare, nell’affermare, nel discutere, nel giudicare: la r. e il torto non si possono dividere con un taglio netto; essere dalla parte della r., o, più com., aver r. (contrapposti a essere dalla parte del torto, aver torto), essere nel proprio buon diritto, o, secondo i casi, dire il vero o il giusto, agire giustamente, comportarsi secondo le regole, ecc.: quasi a una voce tutti gridarono la donna aver r. e dir bene (Boccaccio); in quella questione avevo r. io; è difficile stabilire chi ha r.; gli hai risposto male, ma aveva r. lui; è così prepotente che vuole sempre aver r.; avere cento, mille ragioni, mille volte ragione, ragioni da vendere; chi più urla, ha più r., prov., è più facile farsi valere con le maniere forti. Molto frequente anche la locuz. dar r. (in contrapposizione a dar torto), riconoscere il buon diritto di qualcuno, riconoscere che ha detto la verità o che si è comportato bene: dopo tante discussioni hanno finito per darmi r.; non sempre vien data r. a chi la merita; se non gli si dà sempre r., si arrabbia; i fatti mi hanno dato r., hanno confermato le mie previsioni; ora nessuno gli crede, ma il tempo gli darà r., proverà la giustezza delle sue affermazioni. c. Nel linguaggio giur. ant., diritto, nel senso oggettivo di complesso di norme giuridiche: ragion civile, canonica, criminale, diritto civile, canonico, criminale; r. delle genti, diritto delle genti. Anche, la giustizia resa dai tribunali o da altri organi giudicanti: amministrare la r., tenere r., amministrare la giustizia: un giudiceche …, sedendo al banco, teneva r. (Boccaccio); sala, banco della r. (anche assol. la r.), del luogo dove si amministrava la giustizia; andare alla r., in tribunale, dal giudice: El messer se ne voleva Pure andare alla r. (Poliziano). Palazzo della R., in varie città, il palazzo dove nel medioevo si rendeva giustizia (celebre tra gli altri il palazzo, o sala, della Ragione di Padova, iniziato nel 1219, e quello di Vicenza, rifatto nel 1549, mantenendo la preesistente sala gotica, su progetto di Andrea Palladio). L’antico sign. si conserva nelle locuz. far r. a qualcuno, rendergli giustizia, e, più com., farsi r. da sé, farsi giustizia da solo, senza ricorrere alla legge, all’autorità giudiziaria (concetto espresso anche con la frase, più tecnica, esercizio arbitrario delle proprie ragioni). Nel linguaggio giur. (anche moderno, soprattutto in storia del diritto), ragion fàttasi, espressione usata per indicare ogni forma di difesa privata dei proprî diritti, e cioè il farsi giustizia da sé senza ricorrere all’autorità pubblica.

5. ant. Calcolo, conto: far la r., fare una r., fare i conti, un conto: la commendò meglio saperleggere e scrivere e fare una r. che se un mercatante fosse (Boccaccio); fig., fare r., fare conto, stimare, pensare: E fa ragion ch’io ti sia sempre allato (Dante). In altre locuz.: rivedere la r., rivedere i conti; domandare r., chiedere conto; rendere r., rendere conto: Quivi mi misi a far baratteria, Di ch’io rendo r. in questo caldo (Dante); le due ultime locuz. sono comuni anche oggi: domandare o chiedere r. a qualcuno di qualche cosa, domandargli spiegazione o chiedergli soddisfazione (d’un suo comportamento, di un’offesa, ecc.); render r., rispondere personalmente, giustificare: dovrai render r. della tua amministrazione, del tuo operato (con altro senso, rendersi r. di qualche cosa, riuscire a capirne il processo o il motivo, spiegarsi un fatto, capacitarsene: non mi rendo r. di come sia successo; cerco di rendermi r. del suo comportaniento). Con uso scherz., chiedere conto e ragione, chiedere spiegazioni sull’operato altrui. Anticam., anche partita (in senso contabile); quindi, dannare la r., cancellare una partita: li dugento fiorin d’oro che l’altrier mi prestasti, non m’ebber luogoe per ciò dannerai la mia r. (Boccaccio).

6. a. In matematica, il termine è usato soprattutto nelle espressioni r. di una progressione aritmetica e r. di una progressione geometrica, numero esprimente la differenza e, rispettivamente, il rapporto costante tra ciascun termine e il precedente. Appartengono alla matematica anche le locuz. in r. diretta, in r. inversa, con riferimento a variazioni direttamente o inversamente proporzionali; frequenti anche nel linguaggio com., con sign. analogo: spesso, l’enfasi oratoria è in r. diretta alla povertà delle idee (quanto maggiore è la seconda, tanto cresce la prima); talvolta, il valore di un oggetto è in r. inversa alla sua reale utilità. In economia, r. di scambio, il rapporto secondo il quale due beni si scambiano tra loro, il numero delle unità o frazioni di unità di un bene che si cedono per ottenere un’unità di un altro bene e quindi il prezzo relativo dei due beni; r. di scambio internazionale, il rapporto tra la domanda di prodotti nazionali di un paese da parte dell’estero e la domanda di prodotti esteri da parte dello stesso paese, le cui variazioni risultano dalle variazioni dei prezzi dei beni esportati e di quelli importati misurate da numeri indici.

6.b. Nel linguaggio economico-finanz., sinon. di saggio o tasso d’interesse e di sconto: capitale impiegato alla r. del 6%. In partic., in finanza, r. di una rendita perpetua dello stato, la proporzione tra la rendita stessa e il capitale nominale.

6.c. Nell’uso com., in ragione di, sulla base di, nel rapporto di: il compenso per la collaborazione è stabilito in r. di quaranta euro a cartella; la mole della polenta era in r. dell’annata, e non del numero e della buona voglia dei commensali (Manzoni).

7. ant.

7.a. Specie, qualità: Quivi vivande è di molte ragioni (Pulci). Rimane nella locuz. pop. tosc. d’ogni r., d’ogni specie, d’ogni genere: animali d’ogni r.; ha dovuto sopportare sofferenze d’ogni ragione.

7.aModo, maniera, o via per raggiungere uno scopo (cfr. i sign. ant. di argomento): vederetein che modi si multiplichi la famiglia, con che arti diventi fortunata e beata, con che ragioni s’aquisti grazia (L. B. Alberti).

8.R. sociale (dal fr. raison sociale), il nome commerciale sotto il quale agisce una società in accomandita semplice o in nome collettivo: è costituito dal nome di uno o più soci (anche receduti dal vincolo contrattuale oppure defunti, purché vi sia il loro consenso nel primo caso, o rispettivam. quello degli eredi del defunto) e dall’indicazione del rapporto sociale vigente tra essi: si distingue dalla ditta, che corrisponde al nome sotto il quale l’imprenditore (come soggetto singolo) esercita la sua attività e dalla denominazione sociale, che è il nome delle società per azioni (e che non deve necessariamente contenere l’indicazione del nome di uno dei soci). L’uso esclusivo della r. sociale è tutelato dalla legge, se debitamente registrato.

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Il processo raziocinante umano assimilato a un meccanismo

La ragione, in filosofia, è la facoltà dell’intelletto per mezzo della quale si esercita il pensiero razionale, ovvero quello rivolto ad argomenti astratti tipici del ragionamento, contrapponendosi alla sfera dell’irrazionalità. Analogamente in psicologia cognitiva indica la capacità cognitiva della mente di operare ragionamenti più o meno corretti. La ragione è ritenuta dalla maggior parte dei filosofi una facoltà universale tale da essere condivisa tanto dagli umani quanto, teoricamente, da animali o da intelligenze artificiali che userebbero la ragione intesa come capacità di calcolo. Sono molti i pensatori, nella storia del pensiero, che si sono dedicati allo studio di questa nozione, dando luogo a molteplici prospettive, spesso reciprocamente incompatibili (es. razionalismo, criticismo, positivismo logico ecc…).

Etimologia

“Ragione” deriva dal latino “ratio”, termine che nel linguaggio comune significava calcolo o rapporto. Fu Cicerone ad usarlo per tradurre la parola logos, che però in greco assume anche l’ulteriore significato di discorso.

Nel Medioevo la scolastica usò invece il termine ratio per tradurre il greco dianoia, ossia quella facoltà contrapposta al nous che viene tradotto in latino con intellectus.

Definizioni

L’originario significato di ragione come discorso lo si ritrova nell’antico modello argomentativo della geometria di Euclide, il quale, facendo uso di premesse iniziali per giungere a delle conclusioni, si serviva a loro volta di queste ultime come premesse per ulteriori conclusioni.

La ragione in questo senso era intesa come la facoltà, o il processo, in grado di produrre inferenze logiche. A partire da Aristotele, che si rifece al modello euclideo, tali ragionamenti sono stati classificati come ragionamenti deduttivi (che procedono dal generale al particolare) per distinguerli dai ragionamenti induttivi (che procedono dal particolare al generale), sebbene alcuni pensatori non siano d’accordo nel vedere l’induzione come un ragionamento. Nel XIX secolo, Charles Peirce, filosofo statunitense, ha aggiunto a queste due una terza categoria, il ragionamento adduttivo, intendendo «ciò che va dalla migliore informazione disponibile alla migliore spiegazione», che è diventato un importante elemento del metodo scientifico. Nell’uso moderno, “ragionamento induttivo” include spesso ciò che Peirce ha denominato “adduttivo”.

Occorre precisare, tuttavia, che lo stesso Aristotele era stato poco chiaro nel definire l’induzione come un “ragionamento”, ossia come una prerogativa della ragione. Il termine greco epagoghé da lui usato, che oggi traduciamo appunto con induzione, non sembrava avere per Aristotele alcun carattere di necessità logica. A quanto risulta, l’unica forma di razionalità logica era per lui quella deduttiva (dall’universale al particolare), mentre una “logica induttiva” gli sarebbe parsa una palese contraddizione in termini.

Ragione e intelletto

A conferma di ciò, Aristotele era solito distinguere la semplice ragione (da lui chiamata diànoia), dall’intelletto (o noùs): tale distinzione è dovuta al fatto che la razionalità deduttiva, la cui forma esemplare è il sillogismo apodittico, pur essendo capace di trarre conclusioni coerenti con le premesse, cioè di effettuare dimostrazioni corrette da un punto di vista formale, non può in alcun modo garantire la verità dei contenuti; per cui se il ragionamento parte da premesse false, anche il risultato finale sarà falso. Aristotele assegnò pertanto all’intelletto, distinto dalla ragione, la capacità di cogliere la verità delle premesse dalle quali scaturirà la dimostrazione, grazie ad un atto intuitivo capace di astrarre l’essenza universale della realtà da singoli casi particolari. Questo procedimento che culmina col momento intuitivo-intellettivo è avviato appunto dall’epagoghé, ma si tratta comunque di un processo di natura extra-razionale, il che, si badi, è diverso da “irrazionale”: l’intuizione intellettuale era anzi situata da Aristotele ad un livello superiore rispetto alla scienza fornita dalla ragione:

«I possessi sempre veraci sono la scienza e l’intuizione, e non sussiste altro genere di conoscenza superiore alla scienza, all’infuori dell’intuizione. Ciò posto, e dato che i princìpi primi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d’altro canto, ogni scienza si presenta congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i princìpi non saranno oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l’intuizione, sarà invece l’intuizione ad avere come oggetto i princìpi.» (Aristotele, Analitici secondi II, 19, l00b)

Sotto quest’aspetto l’impostazione aristotelica risentiva dell’influsso di Platone,che già aveva parlato di intuizione sostenendone la superiorità nei confronti del ragionamento. Tale superiorità sarà ribadita in età ellenistica con il neoplatonismo, quando Plotino assegnerà all’ipostasi dell’Anima il livello di conoscenza di tipo mediato proprio della ragione, inferiore a quello immediato dell’Intelletto proprio dell’intuizione; una concezione ripresa in seguito anche dal pensiero cristiano di Agostino d’Ippona, che distinse l’intellectus, ossia la capacità di farsi illuminare dalle verità eterne, dalla ratio, che è invece la facoltà di discorrere e di applicare i concetti appresi per intuizione. Per indicare le due facoltà, Agostino utilizza in alternativa anche i termini ratio superior e ratio inferior.

La distinzione tra ragione e intelletto, passata attraverso la scolastica medievale, resterà valida almeno fino al Settecento, sempre basata sulla convinzione che, perché vi sia scienza, la ragione da sola non è sufficiente: questa infatti garantisce soltanto la coerenza interna delle proposizioni che costituiscono il ragionamento, ma non può condurre in alcun modo alla verità dei princìpi primi.

Ancora nell’Umanesimo, Nicola Cusano sostiene che l’intelletto è superiore alla ragione perché rappresenta la dimensione “divina” nell’uomo: a differenza della logica razionale, che è limitata dal principio di non-contraddizione, comune anche agli animali, l’intelletto (intellectus) riesce ad intuire la comune radice di ciò che appare contraddittorio alla semplice ragione (ratio), cogliendo unitariamente il molteplice tramite quella “coincidenza degli opposti” che è propria di Dio.

(LA)

«Docta enim ignorantia de alta regione intellectus existens sic iudicat de ratiocinativo discursus.»

(IT)

«Grazie alla dotta ignoranza l’intelletto si innalza a giudice della ragione discorsiva.» (Cusano, Apologia doctae ignorantiae, h II, S. 16, Z. 1-6)

Sarà con l’avvento dell’età moderna che alla ragione verrà sempre più assegnato un ruolo egemone nel produrre scienza.

Cartesio, cercando di fondare un’autonomia della ragione, ne fece l’organo principale di conoscenza della verità, spostando il baricentro della filosofia dal “fine” al “mezzo”, cioè sottolineando l’importanza più del metodo da seguire che degli obiettivi da raggiungere: «Volendo seriamente ricercare la verità delle cose, non si deve scegliere una scienza particolare. […] Si deve piuttosto pensare soltanto ad aumentare il lume naturale della ragione, non per risolvere questa o quella difficoltà di scuola, ma perché in ogni circostanza della vita l’intelletto indichi alla volontà ciò che si debba scegliere».

Hegel arrivò a concepire la ragione in termini assoluti, non come semplice strumento di ragionamento ma come entità suprema che si identifica con la verità ultima del reale, assegnando invece all’intelletto un ruolo secondario e subordinato a quella. Invertendo i ruoli di intelletto e ragione, egli seguì ed estremizzò l’operato di Kant, che già ne aveva capovolto le funzioni assegnando all’intelletto (in tedesco Verstand) la possibilità di costruire scienza in forma discorsiva, e alla ragione (Vernunft) il compito superiore di rendere conto dei limiti della conoscenza umana:

«[La ragione] in quanto spontaneità pura […] si eleva anche al di sopra dell’intelletto, perché, sebbene l’intelletto sia anche spontaneità […] può tuttavia trarre dalla propria attività solo concetti che servono esclusivamente a sottoporre le rappresentazioni sensibili a regole e a riunirle così in una coscienza; […] viceversa la ragione, nel campo delle idee, rivela una spontaneità così pura da innalzarsi molto al di sopra di ciò che la sensibilità fornisce all’intelletto e realizza il suo compito più elevato quando distingue l’uno dall’altro il mondo sensibile e il mondo intelligibile, assegnando così i propri limiti all’intelletto stesso.» (Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Bari, Laterza, 1970, p. 93)

Altre accezioni

La diversità degli approcci al concetto di ragione ha determinato una varietà di significati in relazione ad altre facoltà dell’essere umano oltre all’intelletto, come la fede, il sentimento, i desideri, gli organi di senso.

L’uomo come “animale razionale”

Da uno specifico punto di vista, la ragione, intesa in un senso più ampio che ricomprende anche le facolta dell’intelletto, è stata vista spesso come prerogativa dell’uomo che lo distingue da ogni altro animale, tanto che ed esempio Aristotele ne parla come di “animale razionale”: l’uomo ha cioè in comune con tutti gli altri animali il fatto di essere appunto animale (con le caratteristiche che tale essenza comporta), ma come peculiarità rispetto ad essi quella di avere anche un’anima razionale (o intellettiva). La razionalità, ad ogni modo, non viene mai di per sé contrapposta alle emozioni: piuttosto, nella trattazione dell’etica, Aristotele evidenzia l’importanza di ricercare il «giusto mezzo» fra le estreme passioni, quindi non per condannarle o sopprimerle, ma per modellarle nella giusta forma.

Vengono distinte in proposito le virtù etiche, tipiche dell’anima inferiore, che sono semplici abitudini di comportamento, dalle virtù razionali o dianoetiche, che svolgono un ruolo di guida (in particolare la prudenza). Il loro esercizio conduce ad applicare correttamente la ragione, da intendere però non in senso strumentale secondo l’ottica odierna, bensì a fini produttivi (arte) e soprattutto contemplativi (sapienza). Alla virtù suprema della sapienza, ad esempio, concorrono le due facoltà conoscitive viste in precedenza: la scienza (epistème), che è la capacità della logica di compiere dimostrazioni; e l’intelletto (nùs), che fornisce i princìpi primi da cui scaturiscono quelle dimostrazioni. La contemplazione della verità raggiunta con la sapienza è così un’attività fine a sé stessa, nella quale consiste propriamente la felicità (eudaimonìa), ed è quella che distingue l’uomo, in quanto essere razionale, dagli altri animali, rendendolo più simile a Dio.

«Se in verità l’intelletto è qualcosa di divino in confronto all’uomo, anche la vita secondo esso è divina in confronto alla vita umana.» (Aristotele, Etica Nicomachea, X.7, 1177 b30-31)

Ragione come ordine geometrico

Oltre che come facoltà soggettiva dell’uomo, la ragione è stata intesa anche come il fondamento oggettivo dell’universo, che si manifesta nel suo ordine matematico-geometrico.

Già Anassagora, fra gli antichi greci, parlava di una Mente universale (o intelletto cosmico, detto Νούς, Nùs) contrapposta al caos primordiale, che vi metteva ordine come conseguenza del proprio “pensarsi”. Pitagora riteneva che l’intero l’universo fosse strutturato secondo le leggi della matematica, quindi secondo un ordine razionale che il pensiero era in grado di cogliere in termini di rapporti numerici, da intendersi però, come hanno osservato vari autori, tra cui Édouard Schuré e René Guénon, in un senso non solo quantitativo, ma soprattutto qualitativo e simbolico.

La concezione pitagorica venne ripresa da Platone in polemica contro Democrito, il cui meccanicismo, pur interpretando i fenomeni naturali in termini di nessi causali ricostruibili teoricamente secondo una logica razionale, escludeva l’esistenza di principi primi a cui tale logica soggiacesse. La razionalità platonica è invece da intendere come organicità, come principio organizzativo unificante che si articola esprimendosi a tutti i livelli, nel macrocosmo come nel microcosmo. L’intero universo, ad esempio, è concepito come un unico «essere vivente davvero dotato di anima e intelligenza»; così anche l’essere umano non consta di semplici parti assemblate insieme tra loro, ma di un’unità che occorre saper governare: nel mito del carro e dell’auriga Platone assimila la parte razionale o intellettiva dell’anima umana (logistikòn) ad un cocchiere che ha il compito di guidare gli altri due aspetti dell’anima, quello spirituale (thymeidès) e quello concupiscibile (epithymetikòn), assimilati rispettivamente ad un cavallo bianco e ad un cavallo nero. La stessa tripartizione viene riproposta da Platone nella concezione politica dello Stato organizzato secondo ragione, in analogia all’organismo vivente: ai filosofi, preposti al governo della Polis, spetta il compito di far rispettare l’armonia tra le sue parti, che constano di Ragione (appunto i filosofi), Volontà (classe dei guerrieri) e Concupiscenza (gli artigiani), qualità che si esprimono rispettivamente nelle virtù della sapienza, del coraggio e della temperanza.

La concezione platonica della ragione come organicità e ordine geometrico sarà ripresa dai neoplatonici. Anche per Plotino, il mondo naturale dei fenomeni è l’espressione tangibile di forme razionali sovrasensibili, le idee, che risiedono nell’Intelletto, il quale è strutturato secondo un ordine perfettamente armonico e razionale, ma accessibile solo intuitivamente. Esso è quindi superiore alla razionalità discorsiva dell’Anima, ma a sua volta inferiore rispetto all’ipostasi sovra-razionale dell’Uno. Quest’ultimo non può essere compreso razionalmente né intuivamente, essendo piuttosto la fonte di ogni ragione. La sua attività di emanazione esula perciò da qualunque necessità razionale, necessità che invece occorre ammettere nella via all’insù per giustificare i molti rapportandoli all’Uno.

Ragione come Logos

Il significato di ragione come fondamento dell’universo, contenente in sé le ragioni seminali delle forme naturali, riconduce al concetto greco di Logos. In un frammento di Eraclito, al Logos è attribuita la capacità di connettere l’Uno al molteplice, poiché esso è la Legge in grado di mettere in rapporto reciproco tutti gli aspetti del mondo, e alla quale dovrebbe conformarsi così anche il modo di ragionare degli uomini.

«[Il Logos] pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira.» (Eraclito, frammento 51)

I veri saggi, secondo Eraclito, sono quelli che riconoscono in loro il Logos e ad esso s’ispirano come fanno coloro che governano la città adeguando le leggi alla razionalità universale della legge divina.

Un concetto simile lo si ritrova nello stoicismo, dove la ragione sembra assumere una valenza di forte contrapposizione alle passioni e ai sentimenti, nell’ambito di una visione del cosmo pervaso da un principio in esso strutturato e immanente: appunto il Logos. Questo termine, oltre che “ragione”, significa anche “discorso”, a indicare che il principio fondante dell’universo è lo stesso che si esplica nelle regole formali del pensiero e del linguaggio, a cui infatti gli stoici dedicarono notevoli studi, dando vita a quella particolare disciplina che oggi è altrimenti conosciuta come logica proposizionale.

Se la ragione si contrappone alle passioni, si tratta però dei due aspetti complementari dell’unico Logos, che consta di un principio attivo (heghemonikòn), e di uno passivo (pàthos). Nell’esistenza del saggio non c’è più tensione tra i due poli, tutto scorre pacificamente perché egli ha imparato a dominare le passioni (απάθεια, “apàtheia”) raggiungendo la condizione dell’atarassia. La virtù stoica consiste così nel vivere in modo conforme alla natura del mondo (ομολογία, “omologhìa”): mentre gli animali tendono a preservare se stessi obbedendo agli impulsi, gli uomini devono scegliere sempre quel che conviene alla nostra natura di esseri razionali. Poiché tutto accade secondo ragione, esiste un diritto di natura al quale è giusto conformarsi:

«Il vivere secondo natura è vivere secondo virtù, cioè secondo la natura singola e la natura dell’universo, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l’universo ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo.» (Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi, VII, 88)

La concezione di Dio come Logos, fondamento razionale dell’universo, sarà riadattata e fatta propria dai primi padri della Chiesa:

«La razionalità poteva diventare religione perché il Dio della razionalità era entrato egli stesso nella religione. In fin dei conti, l’elemento che rivendicava la fede, la Parola storica di Dio, non costituiva forse il presupposto perché la religione potesse volgersi oramai verso il Dio filosofico, che non era un Dio puramente filosofico e che nondimeno non respingeva la filosofia, ma anzi la assumeva? Qui si manifestava una cosa stupefacente: i due princìpi fondamentali apparentemente contrari del cristianesimo – legame con la metafisica e il legame con la storia – si condizionavano e si rapportavano reciprocamente; insieme formavano l’apologia del cristianesimo come religio vera.» (Joseph Ratzinger, dalla conferenza Verità del cristianesimo?, pronunciata il 27 novembre 1999 presso l’Università della Sorbona di Parigi)

Ragione eroica

La concezione platonica di un ordinamento divino del mondo e della natura ritornerà nel Rinascimento, in particolare con Giordano Bruno.

Se Dio è la Ragione che irradiandosi nell’universo ne plasma la materia, la massima speculazione filosofica consisterà nell’imitare una simile attività produttiva, tramite un impeto razionale capace di sprigionare energia creatrice all’infinito. Questo sforzo è l’eroico furore, non un pensare astratto o lo spegnimento ascetico delle facoltà umane, bensì al contrario esaltazione dei sensi e della ragione: una conoscenza capace di penetrare «il fonte de tutti li numeri, de tutte specie, de tutte ragioni, che è la monade, vera essenza dell’essere de tutti».

Ragione e teologia

Nell’ambito della teologia cristiana, è diventato oggetto di studio il modo in cui la ragione si rapporta con la fede.

A tal fine i filosofi medioevali ripresero da Plotino il metodo che era stato definito della teologia negativa: sebbene Dio non sia per nulla conoscibile attraverso la razionalità, ma solo con l’intelligenza della fede che tuttavia è incomunicabile, viene ammessa in parte la possibilità di un esercizio discorsivo e razionale per avvicinarsi a Lui, non dicendo cosa Egli è, ma dicendo cosa Egli non è. La ragione diventa così il limite negativo della fede, e viceversa, in un rapporto che Giovanni Scoto Eriugena risolverà in un cerchio.

Poiché l’una concorre all’altra, secondo Agostino d’Ippona la fede cristiana non è mai disgiunta dalla razionalità: nel tendere a Dio, il credere e il comprendere si condizionano a vicenda. Si crede purché si comprenda, e si comprende purché si creda. Agostino si accorse che il credere è una condizione ineliminabile della vita umana, tutta fondata su credenze ed atti di fede, che noi prendiamo per buoni prima di averli personalmente sperimentati, i quali però, una volta accolti, rendono possibile una coscienza critica, mostrando così la loro eventuale sensatezza.

Questo è il significato del credo ut intelligam, cioè «credo per poter comprendere». E a sua volta il comprendere aiuta a riconoscere come vero ciò che prima andava accolto ciecamente per un atto di fede: questo è il significato dell’intelligo ut credam, cioè «comprendo per poter credere». Si tratta di concetti di derivazione neoplatonica che vedono l’essere e il pensiero, la realtà e la ragione, uniti indissolubilmente in un rapporto di reciproca complementarità. La fede rimane comunque un dono, che Dio concede per esaudire la richiesta di senso da parte della ragione umana.

Ragione “ancella della fede”

Tramite la teologia negativa diventava possibile il tentativo di pensare la divinità anche con gli strumenti della ragione, non già per rinforzare la fede, quanto allo scopo di difenderla dalle critiche nei suoi confronti. La ragione “ancella della fede” è così la concezione rintracciabile sin dai primi costruttivi rapporti tra filosofia e religione, ad esempio in Clemente Alessandrino, e in tutta la cultura medioevale da Alberto Magno: «ad theologiam omnes aliae scientiae ancillantur», fino a Tommaso d’Aquino, e Bonaventura da Bagnoregio.

Per Tommaso d’Aquino il contenuto della fede non può contraddire il contenuto della ragione naturale, che anzi è in grado di fornire quei «preamboli» capaci di elevare alla fede. Con la ragione, ad esempio, si può arrivare a conoscere «il fatto che Dio è» (“de Deo quia est”): senza questa premessa non si potrebbe credere che Gesù ne sia il Figlio. Lo stesso Aristotele, che pure ignorava la rivelazione cristiana, aveva sviluppato secondo Tommaso un sapere filosofico in accordo con quella. La grazia della fede quindi non distrugge ma completa la ragione, orientandola verso la meta finale già indicata dalla metafisica aristotelica, che è la conoscenza della verità, contenuto fondamentale della «filosofia prima». La verità è il fine ultimo dell’intero universo, che trova senso e spiegazione nell’intelletto di Dio che l’ha creato.

Nella scolastica medievale, se la ragione veniva così esercitata come attività eminentemente umana rivolta alla chiarificazione di nozioni religiose, dall’altro la fede poneva quei limiti all’interno dei quali la ragione poteva effettivamente essere esercitata, al riparo dagli eccessi della presunzione. Questi limiti saranno concepiti in maniera diversa a seconda delle diverse confessioni religiose e dei periodi storici di riferimento: in generale, si può dire che il cristianesimo protestante tenderà a separare più nettamente il margine d’azione della ragione da quello della fede, mentre il cattolicesimo, pur stabilendo l’autonomia dell’ordine naturale del mondo rispetto a quello soprannaturale e riservando quindi alla fede l’ambito delle verità della teologia, si è mostrata più propensa a una conciliazione tra fede e ragione, il cui reciproco rapporto è visto in un’ottica di complementarità.

Il Concilio Vaticano I insegna che la fede è comunque necessaria per accedere a quelle verità su Dio di per sé inaccessibili alla sola ragione, come la Trinità. Di conseguenza la fede è la più alta fonte della conoscenza, sia per la sua origine (Dio, in quanto virtù infusa), sia per il suo oggetto (la conoscenza vera e certa, sebbene incompleta, di Dio).

Razionalismo e autonomia della ragione

Con l’età moderna, a partire da Cartesio, si cerca di costruire una nuova idea di ragione contrapposta alla precedente, da cui tuttavia prende le mosse.

Nella metafisica cristiana la ragione si costituiva come tale solo in quanto espressione del Principio sovra-razionale da cui emanava, a cui accedere tramite rivelazione non potendo dedurlo da sé. Con Cartesio, invece, il farsi espressione di un principio viene interpretato come condizione ontologica del principio stesso, e quindi come capacità di saperlo dedurre autonomamente, seppure sul piano della sola coscienza. Cogito ergo sum è la formula che riassume la sottomissione dell’essere al pensiero. La distinzione agostiniana tra ratio superior (o intelletto, capace di elevarsi al trascendente) e inferior (ragione calcolante) venne così eliminata: Cartesio adottò una definizione di ragione basata esclusivamente sul buon senso, ritenuto «fra le cose del mondo quella più equamente distribuita».

L’autonomia del cogito ergo sum, con cui approdò alla certezza di esistere appunto come ragione o res cogitans (sostanza pensante), indipendentemente da una realtà esterna o res extensa al di fuori di lui, lo indusse a stabilire un nuovo criterio di verità, basato sul dubbio, che di quella realtà esterna riconoscesse come “vero” soltanto ciò che risultasse chiaro ed evidente: tali sono ad esempio i rapporti matematici che si possono misurare, come la lunghezza, la larghezza e la profondità. A differenza delle proprietà qualitative come il gusto, l’olfatto, i colori, che non descriverebbero nulla, le proprietà quantitative risultano chiare ed evidenti alla ragione, così come è chiaro ed evidente che io sono un essere pensante.

La garanzia che all’idea della ragione corrisponda effettivamente la realtà è data da Dio, che nella sua perfezione «non ci può ingannare». Neppure di Dio peraltro si può dubitare, perché l’idea che abbiamo di Lui è anch’essa «chiara e distinta». La ragione divenne così lo strumento per edificare il nuovo edificio del sapere; con essa si apprendono intuitivamente le verità fondamentali, che sono le cause, ovvero le “ragioni”, per cui è tutto ciò che è, ed avviene tutto ciò che avviene.

Un simile modo di pensare espose tuttavia Cartesio alle accuse di essere caduto in una trappola solipsistica, tutta interna alla res cogitans o ragione, assimilabile a un circolo vizioso: Cartesio teorizza Dio per garantirsi quei criteri di verità che gli sono serviti a dimostrare l’esistenza di Dio. Le maggiori critiche gli furono rivolte da Blaise Pascal, che si fece fautore di un ritorno alla tradizione agostiniana,respingendo le pretese cartesiane della ragione di potersi fondare da sola:

«L’ultimo passo della ragione è il riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano; è davvero debole se essa non arriva a riconoscerlo.» (Blaise Pascal, Pensées, ed. Brunschvicg, nn. *272 e *267)

Per Pascal la ragione, che viene chiamata esprit de géométrie (“spirito di geometria”), non ha valore assoluto, neppure nei rapporti matematico-deduttivi stabiliti dalla scienza, perché è costretta ad assumere dei postulati di partenza. Ad essa occorre affiancare l’esprit de finesse (cioè lo “spirito di finezza”, o l’intuizione del cuore), capace di penetrare i problemi e il senso della vita.

Ragione e sentimenti

Il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, o tra ragione e realtà, si ripercuoterà in una contrapposizione tra mente e corpo: alla ragione verrà sempre più opposto il «cuore», con le sue ragioni che la ragione non conosce, sebbene il cuore sarà progressivamente inteso non già come la parte più elevata della mente rivolta alla contemplazione (facoltà che Platone e Aristotele attribuivano all’intuizione intellettuale), bensì come sentimento, affettività, impulso, emozione, passione. Al razionalismo si affiancherà così la corrente del sentimentalismo religioso, e più tardi dell’irrazionalismo.

Nell’ambito dell’empirismo anglosassone, tuttavia, venne negata alla radice l’esistenza di un contrasto tra ragione e passioni, quale era stato tramandato ad esempio dalla dottrina stoica, dato che la ragione venne da esso collocata in una dimensione del tutto estranea a quella delle emozioni, alle quali non può quindi fare da guida.

David Hume sosterrà che l’etica si basa esclusivamente sui sentimenti, e che la ragione è al servizio dei desideri, cioè semplicemente il mezzo per cercare di ottenere ciò a cui si aspira.

«Il principio che si contrappone alla passione non può coincidere con la ragione e solo impropriamente lo si chiama così. Non parliamo né con rigore né filosoficamente quando parliamo di una lotta tra la passione e la ragione. La ragione è, e può solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse.» (David Hume, Trattato sulla natura umana, II, 3, 3)

Ragione ed esperienza

Anche il rapporto tra ragione ed esperienza sensibile, del resto, era stato variamente interpretato nel corso della storia della filosofia: in Parmenide, Socrate, Platone, e nei successivi filosofi che a loro si ispirarono, prevaleva un atteggiamento razionalista di fiducia nel sapere dell’intelletto, contrapposto all’opinione e alla conoscenza ingannevole dei sensi. Per costoro non sono i sensi ad esaurire l’identità di un essere umano, come insegnavano i sofisti, l’uomo non è corpo ma soprattutto ragione, conoscenza intellettiva, ed è solo il pieno accordo con questa conoscenza che conduce ad essere felici.

A tale concezione, a cui nel Seicento aderiscono Cartesio, Spinoza e Leibniz, farà da contraltrare l’empirismo anglosassone di Locke, Berkeley e Hume, per i quali la ragione non è da intendere come facoltà universale contrapposta agli organi di senso, ma ha semplicemente la funzione di studiare e rielaborare i dati dell’esperienza, da cui non si può prescindere. In tal senso anche l’empirismo, nonostante l’avversione al razionalismo, può essere ricollocato all’interno del dibattito, tipico della filosofia moderna, sul ruolo e la funzione della ragione.

La ragione illuminista

Il sonno della ragione genera mostri, di Francisco Goya (1797)

Il carattere razionalistico della filosofia moderna trovò un punto di approdo nell’Illuminismo, che affermò l’importanza basilare della ragione come strumento di critica e di azione nel mondo, valido in tutti i campi: dall’etica all’estetica, alla politica, alla religione, alla scienza. Con l’ausilio della ragione, l’illuminismo si propose così di vagliare ogni verità ritenuta imposta dalla tradizione o dall’autorità religiosa, sostenendo l’esigenza che tutto il sapere venisse sottoposto al controllo della ragione e al suo autonomo giudizio.

Esso si rifaceva in tal senso a Cartesio, ma sganciandosi ulteriormente da qualsiasi fondamento trascendente e indagine metafisica, assimilando anche dall’empirismo anglosassone la rivalutazione dell’esperienza sensibile come criterio di validità della conoscenza. Si trattava quindi di una ragione dal carattere essenzialmente pragmatico, intesa come strumento di intervento nel mondo, con cui valutare e riconsiderare tutte le discipline e le attività dell’essere umano, compresa la religione. Il deismo, infatti, si propose di vagliare criticamente le verità del cristianesimo, accogliendo quelle riconducibili a nuclei razionali, e scartando invece quegli aspetti ritenuti incompatibili con la ragione.

«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a sé stesso è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude![38] Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo. Sennonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi.» (Immanuel Kant, da Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, 5 dicembre 1783)

Critica della ragione

n accordo con la sua impostazione illuminista, Kant si propose, sul finire del Settecento, di riesaminare criticamente la ragione, facendone un nuovo metodo di indagine filosofica, ma non come strumento di verità (com’era in Cartesio), bensì per indagare le possibilità di accesso alla verità. Egli sottopose la ragione al tribunale di se stessa, per giudicarne la presunzione di porsi come entità autonoma, andando oltre i limiti che le sono propri. La filosofia di Kant prese così il nome di criticismo, a indicare un atteggiamento mentale che “critica” e analizza le facoltà della ragione.

Egli distinse la ragione in grado di fornire principi a priori della conoscenza, da lui chiamata “pura” (aggettivo che dà il titolo alla sua opera principale, La Critica della ragion pura), dalla “ragion pratica” che riguarda invece la morale del comportamento.

Sul piano della conoscenza, da un lato Kant ammise che questa non deriva dall’esperienza, dall’altro però escluse che la nostra ragione possa arrivare a conoscere ciò che è oltre l’esperienza stessa. Nel tentativo di indagare su quali aspetti del sapere ci si possa esprimere con certezza, Kant giunse a porre l’esistenza di alcuni limiti: al di là di questi limiti vi è l’idea di Dio e altre nozioni metafisiche.

In particolare sarebbe impossibile per Kant dimostrare l’esistenza di Dio perché, nel tentativo di farlo, la ragione entra inevitabilmente in una serie di antinomie, cioè in contraddizioni con sé stessa. Troverebbe infatti spiegazioni logicamente sensate sia ammettendo una possibilità che il suo opposto. Allo stesso modo sarebbe impossibile affermare con certezza se il mondo abbia un inizio e un termine spazio-temporale o piuttosto se sia infinito ed eterno, oppure se esista una libertà di scelta o viga solo il principio di causa-effetto.

Mentre nel mondo naturale l’uomo è dunque vincolato dalle leggi fenomeniche di causa-effetto, egli però, in quanto creatura razionale, appartiene anche al cosiddetto noumeno, cioè il mondo com’è in sé indipendentemente dalle nostre sensazioni o dai nostri legami conoscitivi: la ragion pratica pertanto, poiché non è vincolata dai limiti fenomenici in cui si trovava a operare la pura ragione, a differenza di quest’ultima sa attingere all’Assoluto, perché obbedisce soltanto alle leggi che scopre dentro di sé.

La ragione dialettica

La riflessione filosofica che da Kant prese le mosse si riallacciò al significato di dialettica. Del resto, il ruolo peculiare attribuito alla ragione sin da Platone, Aristotele, e dalla tradizione neoplatonica, altro non era che quello dell’attività dialettica, intesa come capacità di scomporre un concetto o un’idea nelle sue componenti particolari secondo le regole necessarie della deduzione logica o del sillogismo, per ricostruire quella rete di collegamenti ideali posti a fondamento della realtà.

Se la dialettica così intesa era situata a un livello inferiore rispetto alla visione eidetica dell’intelletto, Kant ne aveva capovolto le funzioni assegnando alla ragion pura un ruolo supremo, quello appunto dell’attività dialettica, che per lui consisteva nel collegare più concetti tra loro dando luogo alle idee. Le idee della ragione tuttavia non avevano per Kant una funzione costitutiva della conoscenza, ma soltanto regolativa (non le danno il materiale, ma soltanto il fine o il senso): attribuirvi un valore ontologico significherebbe cadere nelle antinomie, mentre la dialettica dovrebbe servire piuttosto come critica dei giudizi trascendenti l’esperienza, mettendo in guardia dal tentativo di travalicare il mondo dei fenomeni.

La concezione kantiana della dialettica, intesa come esercizio critico di riconoscimento del proprio limite, venne tuttavia ripresa dagli idealisti Fichte e Schelling, i quali le attribuirono la capacità non solo di riconoscere razionalmente, ma anche di creare o di porsi ontologicamente un tale limite. La dialettica divenne cioè lo strumento trascendentale in cui si articola l’attività dell’Io, con cui il soggetto da un lato si auto-limita inconsciamente, ma dall’altro si accorge dell’errore insito nel senso comune, che lo portava a scambiare l’apparenza dei fenomeni per la vera realtà. Tornava così, in un certo senso, la concezione della ragione dialettica propria di Platone e dei neoplatonici, intesa nel suo duplice orientamento: come percorso ontologico attraverso cui l’Uno genera inconsciamente il molteplice strutturandosi nelle ipostasi inferiori a sé; e come strumento conoscitivo razionale di risalita dal molteplice all’uno.

Percorrendo le tappe della dialettica, la ragione romantica di Fichte e Schelling poteva così ricondurre a scienza l’intera realtà, anche se essa si limitava a riconoscere, non a riprodurre, l’atto creativo con cui il soggetto poneva l’oggetto, atto che restava prerogativa di una suprema intuizione intellettuale. La loro ragione manteneva infatti un aspetto finito, poiché si limitava a ricostruire per via teorica il processo con cui l’Io crea il mondo, non giungeva a cogliere l’Assoluto stesso, per accedere al quale Fichte proponeva la via etica, Schelling quella estetica (percorsi avulsi cioè dalla razionalità).

Ragione assoluta

Sarà invece con Hegel che la ragione stessa divenne creatrice, attribuendosi il diritto di stabilire cosa è reale e cosa non lo è. «Ciò che è reale è razionale» sarà la summa del pensiero hegeliano: vale a dire che una realtà esiste solo se soddisfa certi criteri di razionalità, rientrando nella triade dialettica di tesi-antitesi-sintesi tipico del procedimento a spirale con cui la Ragione giunge a identificarsi con l’Assoluto.

Rifacendosi idealmente a Cartesio, salutato come l’iniziatore della filosofia moderna dopo secoli di metafisica da lui condannata come “misticheggiante”, Hegel giudicava errato e irrazionale qualunque principio trascendente posto a priori in forma intuitiva, sostenendo che ogni verità dovesse essere giustificata razionalmente prima di essere accettata, tramite la relazione logico-dialettica che essa instaura col suo contrario. Il flusso logico che collega una tesi ad un’antitesi deve cioè tornare a convalidare la tesi iniziale in una sintesi onnicomprensiva, dando luogo ad un procedimento a spirale che si giustifica da solo. Veniva così abbandonata la logica aristotelica: mentre quest’ultima procedeva in maniera lineare, da A verso B, la dialettica hegeliana procede in maniera circolare: da B fa scaturire C (sintesi), che è a sua volta la validazione di A.

Questo modo assolutizzante di intendere la ragione, che faceva coincidere lo strumento col Fine stesso della filosofia, fu ripreso anche da Marx per giustificare la teoria della rivolta di classe sulla base del presunto procedere dialettico della storia, le cui leggi razionali egli intendeva illustrare elaborando il cosiddetto socialismo scientifico. La concezione assoluta della ragione diverrà tuttavia oggetto di numerose critiche a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, che porteranno per contrapposizione alla nascita di correnti irrazionali ispirate alla filosofie di Schopenhauer e Nietzsche.

Al giorno d’oggi

Al giorno d’oggi esistono accezioni più ampie del termine “ragione”. In particolare, l’idea di ragione come facoltà indipendente della mente, separata dalle emozioni, e come caratteristica appartenente solo all’uomo, è fonte di notevoli discussioni: basti considerare le teorie di George Lakoff e Mark Johnson, che hanno descritto così la ragione ed i suoi scopi:

«La ragione include non solo la nostra capacità di produrre inferenze logiche, ma anche quella di condurre indagini, risolvere problemi, valutare, criticare, decidere il modo di agire e raggiungere la comprensione di se stessi, degli altri e del mondo.» (Lakoff e Johnson, 1999, pp. 3-4)

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