Compassione

Glossario – Compassione

 

Etimo secondo TPS

 

Dal latino compassio, sofferenza comune, compassione, dal verbo compati, soffrire insieme ad una altro, assumendo il senso di “provare compassione per qualcuno” solo quando regga un caso dativo o la preposizione cum e l’ablativo. Mentre originariamente la compassione è dunque la partecipazione alla sofferenza dell’altro, nei secoli viene ad assumere un significato prossimo alla pietà, come già testimoniato in Boccaccio, arrivando a designare anche la commiserazione.

La parola appartiene al latino tardo, e nasce per calco del termine greco sympátheia, conformità di sentire, simpatia, composto dal prefisso syn, con, e dal sostantivo pathos, sentimento; nella cultura greca il termine indicava “il sentire insieme” anche in termini filosofici, designando nello stoicismo quella interdipendenza tra tutte le parti dell’universo che fa sì che ogni evento si ripercuota su ogni altra parte del mondo.

Il verbo latino compatior è composto dal prefisso cum-, con, che esprime unione, e dal verbo patior, che aveva una gamma di significati più ampia rispetto a quelli mantenuti in italiano: sopportare, soffrire (di malattia), provare un determinato stato d’animo, pazientare, permettere, vivere, esistere; in grammatica, indicava il valore passivo.

La radice del prefisso “con” non è stata ancora individuata con certezza: deriverebbe per alcuni linguisti dall’indoeuropea *SAM-, esprimendo l’azione [a] del legarsi [s], testimoniata dal sanscrito sam/saka, “simile”, dal greco amasyn e dall’osco kom, “insieme”; per altri, in modo meno convincente, dalla radice *SAK-, che indica il concetto del seguire, accompagnare.

L’analisi del verbo patior è complessa, perché la sua radice indoeuropea, *PAT-, ha sia una forma attiva sia una forma passiva:

  • nella forma attiva esprime l’idea di “muoversi in ogni dove [at] allo scopo di purificare [p]”, “essere a capo di”, “avere potere”, “governare”;
  • nella forma passiva esprime l’idea di “subire un potere”, “essere soggiogati”, “sopportare”.

Derivano dalla prima forma ad es. il sanscrito pat, essere padrone di; il sanscrito pati e il greco posis, signore della casa, sposo; il latino posse, potere, e potis, potente.

Derivano dalla seconda forma il verbo latino patior che qui consideriamo, assieme a termini quali patientia, pazienza, e il greco pathos, passione, sentimento, quale “effetto di ciò che si è subito”; páthema, sofferenza. (Franco Rendich, Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee. Indoeuropeo-Sanscrito-Greco-Latino, Palombi Editori, 2010, pp. 227-8)

Si rileva pure che il suono p nel protoindoeuropeo esprimeva l’idea di purificazione.

Possiamo avanzare l’ipotesi che il termine compassio, sorto nel latino tardo, pur originando formalmente dal verbo compatior, con valenza passiva, custodisca l’originaria duplice natura della radice, con valore anche attivo, indicando la facoltà “passiva” di ascolto della sofferenza altrui e quella “attiva” di sublimarla.

All’interno della parola pulsa la fiamma del cuore, esperienza purificatoria che si vive insieme.

Nei testi dell’Agni Yoga vi sono numerosi riferimenti alla compassione, ad es.:

Comunità, § 134: […] Non confondete la pietà con la compassione. In questa nulla si dissolve, anzi vi crescono i cristalli dell’azione. La compassione non piange, ma soccorre. […]

Agni Yoga, § 332: In che consiste la compassione propria dei Bodhisattva? Senza costringere, in modo invisibile e paziente dirigono al bene ogni forza adatta. […]

 

Compassione significa comprensione che soccorre ed eleva


Treccani

 

compassióne s. f. [dal lat. tardo compassioonis, der. di compăti «compatire», per calco del gr. συμπάϑεια]. –

1. Sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti; partecipazione alle sofferenze altrui: umana cosa è aver c. degli afflitti (Boccaccio); provare, sentire, mostrare c. per qualcuno, per le sue pene; muovere, muoversi a c.; essere degno di c.; è una c. (cioè una condizione che suscita compassione) vederlo ridotto così. Frequente la locuz. fare c., destare pietà: è in uno stato da far c.; iperb., faceva c. persino ai sassi; anche, suscitare un senso di sprezzante commiserazione, detto di cose biasimevoli, ridicole, meschine, di lavori mal riusciti, di persone inette: il tuo cinismo mi fa c.; lo spettacolo faceva davvero c.; un pittore, un poeta che fa c.; con più spregio: taci, mi fai c.!; con sign. sim.: è una c. sentirti leggere; era una c. sentirlo strimpellare in quel modo il violino.

2. In senso più prossimo all’etimologia, il patire insieme, nell’espressione teologica c. di Maria Vergine, la partecipazione attiva della Vergine alla passione e morte di Gesù.

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Compassione (filosofia)

La compassione (dal latino cum patior – soffro con – e dal greco συμπἀθεια , sym patheia – “simpatia”, provare emozioni con..) è un sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui desiderando di alleviarla.

Il concetto di compassione richiama quello di empatia dal greco “εμπαθεια” (empateia, composta da en-, “dentro”, e pathos, “affezione o sentimento”), che veniva usata per indicare il rapporto emozionale di partecipazione soggettiva che legava lo spettatore del teatro greco antico all’attore recitante ed anche l’immedesimazione che esso aveva con il personaggio che interpretava. Una tecnica di recitazione questa comune anche alla commedia dell’arte.

Nelle scienze umane, il termine empatia è passato a designare un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell’altro, escludendo ogni attitudine istintiva affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale.

 

Filosofia antica

 

Il sentimento della compassione era quello che i sofisti sostenevano fossero in grado di suscitare in coloro che assistevano ai loro discorsi. Essi infatti affermavano che ciò fosse opera della magia della parola che:

«è una grande dominatrice, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà. E come ciò ha luogo, lo spiegherò. Perché bisogna anche spiegarlo al giudizio degli uditori: la poesia nelle sue varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l’ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere.» (Gorgia)

Nell’Atene del V secolo a.C. il sofista Gorgia usa la parola come strumento di una persuasione che deriva, non da un dialogo socratico, ma da un’abile mozione dei sentimenti. La parola non serve a conoscere né a predisporre l’azione morale ma è un’arte psicagogica usata a fini di potere politico che instaura una condivisione di passioni tale nell’ascoltatore da fargli credere all’inganno poetico del retore. Questi, afferma Gorgia, è “migliore” di chi non inganna, perché il retore è capace di creare una “verità estetica”, ed «è più saggio chi è ingannato di chi non lo è» perché con la compassione partecipa emotivamente a questa intensa verità.

Il rifiuto invece della compassione come strumento politico è proprio dello stoicismo che abbatte l’antica tradizione politica del mondo greco che si appellava a questo sentimento per curare i mali dell’umanità. Eppure l’interesse per la politica nasce negli stoici per quella loro dimensione cosmopolita, che scaturisce proprio da quel sentimento di compassione e partecipazione agli eventi del mondo proprio della sympathèia, ossia dell’intima connessione esistente tra la sfera dell’uomo e quella dell’Anima cosmica: essi sono sudditi di una patria universale, non c’è avvenimento che non li riguardi, che non li coinvolga. Ma la compassione non deve fondare l’azione politica diretta al bene del prossimo: è vero che attraverso questo sentimento ci si renderebbe conto delle sofferenze, ad esempio, di uno schiavo facendo nascere in noi il desiderio di liberarlo ma la «compassione attribuisce importanza a circostanze esterne come se la dignità umana non fosse autosufficiente… La saggezza è ciò che basta a rendere l’uomo libero.»

Come la compassione dia forza al messaggio filosofico appare chiaro nella poesia di Lucrezio, il filosofo poeta latino che con l’arte poetica fa sì che il pensiero epicureo penetri non solo nella mente ma anche nel cuore degli uomini. Tutta la poesia di Lucrezio è ispirata dalla considerazione di un dolore cosmico che lo porta a compatire soprattutto la sorte «dell’uomo non saggio, il quale privo della verità svelata da Epicuro, trascina una vita inutile e assurda nell’affanno e nella noia per perdersi poi nel nulla».

 

Filosofia medievale

 

Madonna della Misericordia del Bigallo, cerchia di Bernardo Daddi (Firenze, 1340 circa)

La compassione nel cristianesimo diventa il prerequisito della misericordia, e quindi una componente essenziale della carità attiva. Rispetto al mondo classico, Lattanzio fu tra i primi a rivalutare positivamente i gesti dettati dalla compassione, che sono per lui opera e officia misericordiae («opere e doveri della misericordia»).

Anche Agostino d’Ippona contrappose l’imperturbabilità o atarassia degli stoici, per i quali la compassione sarebbe una debolezza d’animo non conveniente alla fermezza del saggio, alla misericordia cristiana, citando un discorso di Cicerone a Cesare:

«Con molta proprietà, umanità e corrispondenza al sentimento delle anime compassionevoli ha parlato Cicerone a lode di Cesare con le parole: Nessuna delle tue virtù è così ammirevole e gradita come la compassione. E la compassione non è altro che la partecipazione del nostro sentimento all’infelicità degli altri perché con essa, se ci è possibile, siamo spinti ad andare loro incontro.» (Agostino, De civitate Dei, IX, 5)

Secondo Tommaso d’Aquino, la compassione si ha quando il proprio cuore è dispiaciuto per la sofferenza altrui (miserum cor super miseria alterius), ed è quindi una forma di tristezza (tristitia), spiegabile con l’amore per gli altri. Essa è prima di tutto un movimento di relazione (motus), non identificabile con un gesto o una realtà in sé: «Essendo la misericordia una compassione della miseria altrui, in senso proprio si ha misericordia solo verso gli altri, non già verso sé stessi».

Tommaso passa poi a distinguere chiaramente la pietà intesa come fenomeno patologico, cioè affetto corporeo, passione determinata unicamente da una pulsione sensuale (motus appetitus sensitivi), dalla pietà regolata dalla ragione sovrasensibile (motus appetitus intellectivi), nel qual caso la compassione è una virtù.

 

Filosofia moderna

 

L’importanza della compassione nella formazione della morale è stata oggetto dell’analisi dei filosofi del XVIII secolo che si possono genericamente identificare in due correnti: una prima che fonda il giudizio morale sulla ragione e una seconda che ne ricerca le origini nelle passioni e nei sentimenti umani. Il dibattito verte anche sulla presenza innata del senso morale o la sua assimilazione dopo la nascita quale elemento culturale.

La compassione compare come strumento educativo nel progetto pedagogico di Rousseau: per sviluppare nell’adolescente una formazione morale bisogna fargli provare esperienze che suscitino in lui la compassione, la capacità di condividere le sofferenze degli altri.

Teoria questa condivisa da David Hume secondo il quale tutte le nostre attività razionali e morali hanno una comune origine negli atteggiamenti sentimentali.

«La ragione è, e deve solo essere schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire ad esse.»

Il rifiuto di ogni sentimento di compassione nella morale caratterizza invece l’etica kantiana. Kant stesso ci dice che per un certo tempo egli fu attratto dalle concezioni morali dei sentimentalisti inglesi che poi abbandonò insoddisfatto perché il loro metodo d’indagine si riduceva a una semplice analisi psicologica e perché il loro eccessivo ottimismo non faceva loro prendere in considerazione quello che per lui costituiva l’elemento essenziale della morale: l’obbligatorietà.

Viene quindi affermata l’indipendenza dell’atto morale dalla scienza e la sua irriducibilità al sentimento che non potrà mai essere confuso con la moralità. Il sentimento della compassione è qualcosa di impulsivo, debole, incostante su cui non può fare affidamento la morale: «una certa dolcezza d’animo che passa facilmente in un caldo senso di pietà, è cosa bella ed amabile, perché rivela una certa partecipazione alle vicende altrui…ma questo sentimento bonario è debole e cieco.»

In Schopenhauer la compassione è una delle strade che porta alla liberazione dal dolore universale dell’uomo, come fenomeno schiavo del rapporto di causalità e come noumeno soggetto alla “volontà di vivere”. L’uomo provando compassione, nel senso originario del termine, cioè patendo assieme agli altri per il loro dolore, non solo prende coscienza del dolore, ma lo sente e lo fa suo. Si realizzerà così la pur momentanea sconfitta della volontà di vivere poiché nella compassione è come se il singolo corpo del singolo uomo si dilatasse nel corpo degli altri uomini: la propria corporeità si assottiglia e la volontà di vivere è meno incisiva. Il dolore unendo gli uomini li accomuna e li conforta.

 

Filosofia contemporanea

 

Riprendendo una tematica kantiana Karl-Otto Apel (1922) esclude nella formazione dei principi morali l’elemento della compassione. «La compassione, la simpatia, la benevolenza, l’amore e simili non possono dunque venir riconosciuti come principi alternativi per la fondazione della morale; possono però esser tenuti in considerazione come risorse motivazionali, empiricamente indispensabili per la fondazione delle norme anche di quelle fondate sulla scorta dell’etica del discorso, su quella morale formale, cioè, della comunicazione che, fondandosi sul rispetto reciproco di principi e regole tra gli interlocutori, individua i presupposti per realizzare un accordo mirante a realizzare pacificamente una vita felice.

Il filosofo israeliano Khen Lampert (1957), prendendo spunto dalla morale della compassione di Schopenhauer, elabora una “Teoria della Compassione Radicale”, che considerando il “comune soffrire” dell’umanità giudica come un imperativo morale quello di cambiare la realtà, al fine di alleviare il dolore degli altri. Questo stato d’animo, secondo la teoria di Lampert, è radicato nel profondo della nostra natura umana, non è mediato dalla cultura, è universale e sta alla radice delle rivendicazioni storiche di cambiamento sociale.

(EN)  «I have noted that compassion, especially in its radical form, manifests itself as an impulse. This manifestation stands in stark opposition to the underlying premises of the Darwinist theories, which regard the survival instinct as determining human behavior, as well to the Freudian logic of the Pleasure Principle, which refutes any supposedly natural tendency on the part of human beings to act against their own interests»

(IT) «Ho notato che la compassione, soprattutto nella sua forma radicale, si manifesta come un impulso. Questa manifestazione è in netto contrasto con le teorie di Darwin, che riguardano l’istinto di sopravvivenza, come determinanti il comportamento umano, e con la teoria freudiana del principio di piacere, che respinge qualsiasi apparentemente naturale tendenza da parte degli esseri umani ad agire contro i propri interessi»

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