Infinito

Glossario – Infinito

 

Etimo secondo TPS

 

Dal latino infinitus, composto da in, prefisso privativo, e da finitus, participio passato di finire, limitare: senza limiti. Finire deriva da finis, fine e confine, dalla radice indoeuropea *BHID- che esprime l’idea di “fendere”, “dividere”. Nel verbo, il modo “infinito” indica la non distinzione delle persone. L’idea espressa è l’illimitato, lo sconfinato nel senso proprio di assenza di confini e distinzioni, non di estensione e immensità: idea di non divisione, di continuità. Non esprimendo le dimensioni, è aformale. E’ l’opposto del concetto di separazione.

 

L’infinito è l’Essenza pervasiva dello Spazio

 

Nel Lambdoma Generatore la definizione è: L’Infinito è il Velo della Vita assoluta (1.2) 


Treccani

 

infinito agg. e s. m. [dal lat. infinitus, comp. di in2 e finitus, part. pass. di finire «limitare»]. –

1. agg.:

1.a. Che non ha principio né fine; che non ha limiti: il tempo i.; lo spazio i.; la misericordia di Dio è i.; i. silenzio (Leopardi). Sostantivato, per antonomasia, l’Infinito, Iddio.

1.b. Che non termina, che si protrae senza limiti: la serie dei numeri naturali è infinita.

1.c. Con sign. più generico, e spesso iperb., innumerevole, immenso, grandissimo: un sasso Che distingua le mie dalle infinite Ossa che in terra e in mar semina morte (Foscolo); incontrare i. difficoltà; soffrire i. dolori; c’è una distanza i., grandissima (in sé o relativamente ad altre distanze); la distesa i. del mare; con lui ci vorrebbe una pazienza i.; i. grazie, o grazie i., formula usuale di ringraziamento.

2. s. m.:

2.a. In senso ampio, l’infinito, lo spazio dalle dimensioni illimitate, il tempo senza confini, l’immensa grandezza del cosmo: il concetto dell’i.; Dio, che solo con la infinita capacitade infinito comprende (Dante); come locuz. avv., in infinito, sempre, senza fine: la sua fama è destinata a crescere in infinito; per la locuz. all’i., v. oltre.

2.b. Nel pensiero filosofico e scientifico, il concetto di infinito ha oscillato tra le due definizioni formulate da Aristotele: l’i. potenziale (o i. sincategorematico), ciò di cui si può prendere sempre e solo una parte, non sostanza quindi ma processo, la cui esistenza è implicata dalla non esauribilità delle grandezze sottoposte alle operazioni dell’aggiunta di una parte sempre nuova e della divisione in parti sempre nuove (tale nozione è fondamentale nell’analisi matematica, in quanto l’infinito è qui oggetto di calcoli positivi come limite di certe operazioni sulle grandezze e sui numeri); e l’i. attuale (o i. categorematico), che sarebbe invece una qualità o sostanza, considerato spesso con sospetto per le difficoltà e le contraddizioni che sembrava comportare (per es., le antinomie concernenti la parte e il tutto nelle classi infinite, cioè i cosiddetti paradossi dell’i., v. paradosso1, n. 2 a), e comunque inteso come una vera grandezza, anche se di tipo particolare, caratteristica degli insiemi infiniti studiati dalla moderna teoria degli insiemi.

2.c. Nell’analisi matematica, si dice che una funzione y = f(x) della variabile reale x tende all’i. (positivo), per x tendente a un dato valore x0, quando, fissato un numero H positivo grande quanto si vuole, può sempre trovarsi un numero δ positivo tale che, per tutti i valori di x che differiscono da x0 per meno di δ, il valore della funzione sia più grande di H. Il concetto di infinito in matematica (ma anche in geometria e in altre discipline) è indicato con il simbolo , formatosi per deformazione delle prime due lettere del latino aequalis «uguale» (e infatti adoperato in un primo tempo per indicare l’uguaglianza).

3. Nella teoria degli insiemi, un insieme si dice infinito quando non si può porre in corrispondenza biunivoca, elemento per elemento, con un insieme finito, mentre può porsi in corrispondenza biunivoca con una propria parte (per es., si può porre in corrispondenza biunivoca l’insieme infinito dei numeri interi con il suo sottoinsieme formato dai numeri pari facendo corrispondere a ogni intero n il suo doppio 2n). Numeri i. (o meglio transfiniti), i numeri che, una volta introdotta la nozione di diversi ordini di infinità, permettono di classificare gli infiniti in ordine crescente di potenza: il più piccolo di tali ordini è la potenza del numerabile, ossia quella dell’insieme dei numeri naturali; quello successivo è la potenza del continuo, caratteristica dell’insieme dei numeri reali, dell’insieme dei punti di una retta o del piano; ecc.

4. All’infinito, locuz. avverbiale (o anche aggettivale) usata con varî sign.:

4.a. Nel linguaggio com., infinite volte, senza limiti, per lunghissimo tempo, e sim.: ripetere all’i. la stessa cosa; moltiplicare, aumentare all’i.; data la lentezza con cui procede, l’opera andrà avanti all’i.; protrarre, continuare all’infinito.

4.b. In geometria, elementi all’i., sinon. di elementi improprî; in partic., nella geometria proiettiva, punto all’i. di una retta, la sua direzione; retta all’i. di un piano, la sua giacitura; piano all’i. dello spazio, l’insieme dei punti e delle rette all’infinito.

4.c. In fisica e nella tecnica, la locuz. è spesso usata, oltre che nel sign. rigoroso della matematica, per indicare che una grandezza ha un valore, in assoluto tutt’altro che infinitamente grande, molto maggiore di quello di altre grandezze, omogenee con essa, che compaiono nel problema in esame; si parla così, in partic., di oggetti all’i. (o, con sign. equivalente, di distanza i.) per indicare la posizione di oggetti, di punti dello spazio, e sim., la cui distanza da particolari enti di riferimento sia molto grande rispetto ad altre lunghezze o distanze significative: per es., in ottica, per oggetti la cui distanza da un sistema ottico sia molto maggiore della distanza focale del sistema (così, nell’uso com., mettere all’i. l’obiettivo, e sim.); in elettrologia, per punti la cui distanza dalle cariche che generano un campo elettrico è sufficientemente grande perché in essi si possano considerare trascurabili le azioni del campo.

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Infinito (filosofia)

« C’è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male, il cui limitato impero è l’etica; parlo dell’Infinito. » (Jorge Luis Borges)

L’infinito (dal latino finitus, cioè “limitato” con prefisso negativo in-, e solitamente denotato dal simbolo ∞, talvolta detto lemniscata) in filosofia è la qualità di ciò che non ha limiti o che non può avere una conclusione perché appunto infinito, senza-fine. Nella concezione cristiana il concetto coniato nell’ambito del pensiero greco trova la sua coincidenza con Dio stesso quale essere infinito.

Nascita del simbolo

Il simbolo matematico di infinito venne utilizzato per la prima volta in epoca moderna da John Wallis nel 1655. Probabilmente egli lo scelse come trasformazione con legatura della lettera M, che nel sistema di numerazione romano indicava un numero “grandissimo” ed equivalente a 1000: Mm → ∞.[2] In alternativa «Wallis potrebbe avere anche pensato che il doppio occhiello di quel simbolo potesse rimandare immediatamente all’infinito, perché tale doppio occhiello può essere percorso senza fine.»[2] D’altronde a volte M era formata da C e I, seguiti da una C specchiata, simile alla M della scrittura onciale (CIƆ). Una terza ipotesi suggerisce che «il simbolo ∞ formatosi per deformazione delle prime due lettere del latino aequalis “uguale” (e infatti adoperato in un primo tempo per indicare l’uguaglianza).»

Presocratici

Il concetto di infinito ha maturato il suo ruolo e la sua ricchezza di sensi molto lentamente nel corso della storia della filosofia occidentale. L’Infinito non fu infatti fin dall’inizio l’oggetto specifico del dibattito, ma dopo l’accenno oscuro di Anassimandro, il termine scivolò grammaticalmente dal ruolo di soggetto a quello di predicato, diventando una qualità (negativa) atta a determinare ciò che dell’Essere non si può dire (e pensare).

Questo significato negativo apparteneva all’inizio ai Pitagorici per i quali solo ciò che è finito è perfetto in quanto compiuto, nel senso che non ha bisogno di nulla per la sua completezza; diversamente per l’infinito, che poiché non ha fine non sarà mai terminato, compiuto nella sua realtà. Ciò spiega perché per loro i numeri dispari erano considerati perfetti in quanto rappresentati geometricamente erano figure chiuse, compiute: non così i numeri pari che erano imperfetti perché geometricamente sempre aperti, non finiti.

Questo è il valore che all’aggettivo viene attribuito da Parmenide di Elea (Sulla natura – circa 515 a.C.). Con Zenone di Elea la tradizione si arricchisce di quella dimensione logico-linguistica che è uno degli aspetti più caratteristici del pensiero greco, poiché il discepolo di Parmenide è ritenuto, con i suoi Paradossi, il primo ideatore del metodo dialettico. Diversa invece la posizione di Melisso di Samo (Sulla natura – metà del V sec.), che riporta il baricentro del dibattito sulla possibilità dell’Infinito di rappresentare una qualità positiva dell’Essere, anzi: la sua determinazione costitutiva, accanto a quella dell’eternità. Sulla scia di Melisso si apre nel dibattito una “terza via”, accanto a quella metafisica e logico-linguistica: la via naturalistica. I suoi rappresentanti furono Anassagora (Sulla natura, dopo il 460 a.C.) e Democrito (Testimonianze e frammenti, circa 400 a.C.). Con l’interpretazione dei due pensatori, il concetto di infinito entra a pieno titolo nell’ambito della realtà fisica, nel primo come qualità relativa dell’essere, nel secondo come superamento del paradigma arcaico del cosmo come luogo finito e circoscritto. Entrambe le concezioni non ebbero un seguito immediato, ma erano destinate, soprattutto quella di Democrito, a riemergere nel pensiero moderno.

Periodo classico

Malgrado la loro importanza nella storiografia filosofica, Platone (Filebo, dopo il 360 a.C.) e Aristotele (Fisica, IV secolo a.C.) non lasciarono un segno particolare nella tradizione riguardo all’infinito; essi appaiono, in questa come in altre problematiche, piuttosto conservatori e aderenti alla tradizione culturale profonda della loro civiltà.

Cina

Verso il 220 a.C. in Cina apparve la teoria di Xuan-ye, che definiva il cielo senza forma e senza limiti, raggiungendo dunque il concetto di infinito astronomico.

Neoplatonismo e periodo ellenistico

Da Plotino (Enneadi, 253 d.C.), invece, il pensiero greco si apre agli influssi provenienti da regioni culturali fino ad allora inusitate: le culture indiana e mediorientali e la tradizione ebraica costituiscono per il filosofo di origine egiziana una stimolo non tanto a difendere ad ogni costo il modello culturale classico platonico e aristotelico, quanto a tentare di razionalizzare gli aspetti più influenti di quelle culture entro gli schemi linguistici dei due grandi maestri. Uno degli effetti di questa operazione è l’inclusione del concetto di infinito negli schemi della metafisica di carattere religioso allora in voga nelle comunità intellettuali alessandrina e siriana: diventando proprietà del principio divino, il concetto di infinito si carica di connotazioni filosofico-trascendenti che allargheranno il dibattito successivo verso esiti del tutto divergenti rispetto alla sua forma iniziale. Ciò si può misurare fin dal XII secolo, con l’anonimo Liber XXIV philosophorum e la famosa definizione di Dio come “sfera infinita” in esso contenuta. Con questo viraggio semantico operato dalla cultura tardo-ellenistica di tradizione neoplatonica, il problema diventa non più quello di conciliare l’idea di infinito coi limiti di un universo finito qual era quello classico e tolemaico, ma di superare il modello argomentativo logico aristotelico con l’uso esplicativo della metafora come veicolo per giustificare i principi della fede con gli strumenti della razionalità umana.

Medioevo

La svolta della modernità filosofica appare, attraverso il pensiero di Nicola Cusano (De docta ignorantia, 1440), come la ricerca di una conciliazione tra finito e infinito, tra uomo e Dio: la teoria della coincidentia oppositorum consiste infatti nella trasformazione dell’infinito in una dimensione assoluta cha fa da sfondo all’indeterminata possibilità dell’uomo di accrescere la sua conoscenza. L’uomo non raggiungerà mai la comprensione dell’assoluto, ma la sua dignità (e in questo valore si rifletterà tutta la cultura rinascimentale) consiste proprio nel potenzialmente infinito progredire dello spirito. Sulla stessa lunghezza d’onda si muove Giordano Bruno; ma la novità del filosofo italiano consiste nel radicalizzare in senso naturalistico-panteista gli sviluppi metafisici e matematici del concetto di infinito. Nei suoi celebri dialoghi cosmologici, Bruno elabora una concezione dell’infinito come Universo che può essere considerata – in parallelo alla nascita della teoria copernicana – “l’atto di nascita” dell’astronomia moderna.

Periodo moderno e oltre

« Solo due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana, e non sono sicuro della prima. » (Albert Einstein)

Il concetto di infinito non sparisce dall’orizzonte della filosofia occidentale con la fine del Rinascimento, ma penetra attraverso il pensiero di Spinoza nella sfera culturale della rivoluzione scientifica, per connotare in senso metafisico l’idea stessa di razionalità tipica di quel periodo. Spinoza appare dunque come il pensatore attraverso la cui opera (Etica, 1677 op. postuma), l’idea di infinitezza come attributo immanente della ragione, come possibilità indeterminata della ragione di autogenerarsi autonomamente a partire da leggi eterne sue proprie, entra definitivamente nel mondo moderno. Il fenomeno stesso dello “Spinozismo”, cioè la storia degli effetti che la sua opera ebbe nella cultura tedesca tra ‘700 e ‘800, è una delle matrici del grande dibattito sull’assoluto che si sviluppò nel cuore dell’Idealismo tedesco. Ed è proprio attraverso Spinoza che la discussione sull’Infinito viene a coincidere, per un tratto importante del suo sviluppo, con la discussione sull’assoluto. Si affianca a questo la riflessione di Auguste Blanqui ne L’Eternité par les astres, attualmente ritrovabile in Borges.

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