Glossario – Bene
Etimo secondo TPS
È un sostantivo derivante dall’avverbio “bene”, che origina dal latino bene, che aveva una gamma di significati: “bene”, “giustamente”, “molto” (con uso rafforzativo), “con finalità buona”, “di buon augurio”.
L’avverbio latino risale alla stessa radice indoeuropea di bonus, buono, che è dibattuta: nelle iscrizioni più antiche è attestato duonus, derivante secondo alcuni linguisti da *DIV- che esprime l’idea dello splendore (contratto da *divonus), secondo altri da una radice affine alla sanscrita DVE- che esprime l’idea della beatitudine.
In ogni caso, il suono D esprime l’idea della luce, il suono V quella della separazione intesa come emanazione: energia che proviene dalla luce, così come il termine “divino” (Franco Rendich, Dizionario Etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee. Indoeuropeo- Sanscrito-Greco-Latino, Palombi Editori, 2010, p. 159)
L’etimo di “buono” e di “bello” è lo stesso.
Bene significa Energia divina
Treccani
bène2 s. m. [dall’avv. bene1]. –
1.a. Ciò che è buono in sé, cioè perfetto nella compiutezza del suo essere o nel suo valore morale, e quindi oggetto di desiderio, causa e fine dell’azione umana: tendere, aspirare al b.; il sommo b., in partic., nel cristianesimo, Dio; il ben dell’intelletto, Dio o la visione di Dio (secondo l’interpretazione prevalente dei versi di Dante: vedrai le genti dolorose C’hanno perduto il ben de l’intelletto, Inf. III, 17-18), ma nell’uso com., il senno, la ragione: perdere il ben dell’intelletto, diventare matto. Con più diretto riferimento al bene come norma dell’attività morale: la scienza del b. e del male; capire, distinguere il b. e il male; Al di là del b. e del male (ted. Jenseits von Gut und Böse), titolo di un’opera di F. Nietzsche.
1.b. Con valore neutro, cosa buona, quindi anche giusta, utile, opportuna; spec. in unione col verbo essere e con altri verbi copulativi, col verbo credere e sim.: è b. che sia così; sarà b. avvertirlo; sarebbe b. che fossi presente anche tu; mi parve b. rinunziare; credo b. che tu faccia valere le tue ragioni. Contrapposto ad altri agg. sostantivati, si usa, con lo stesso senso, il buono: il vero, il bello, il buono; in ognuno di noi c’è il buono e il cattivo.
2. estens.
2.a. Ciò che è di utilità, di vantaggio: la sua venuta è stata un b. per tutti; spesso da un male nasce un b.; da lui non ho avuto che b.; fare, agire, parlare a fin di b., con lo scopo di giovare, di essere utile, e in genere con buone intenzioni.
2.b. Più determinatamente, benessere, felicità: ti auguro ogni b.; per il b. comune, per il b. della patria, della società; noi tutti vogliamo il tuo b.; è solo per il vostro b. che agisco così; nessuno può farti star bene se il b. non è già in te (Sandro Veronesi); il b. eterno, la beatitudine celeste. In senso concr., ciò da cui ci viene gioia, felicità; tu sei il mio unico b.; non ha altro b. che quel figlio; quindi, la persona che è oggetto di amore: l’amato b., scherz., la persona amata; spec. come vocativo affettuoso: mio b.; mio caro b.; dolce mio bene. 2.c. Fortuna, buona sorte, soprattutto nella locuz. portare b. (contrapp. a portare male), portare o promettere buona fortuna, essere di buon augurio, essere fonte di benessere, di felicità; e nella frase non avere il b. di …, equivalente, oggi poco com., di «non avere la fortuna, la sorte di» (per es., non ho il b. di conoscerlo), in passato anche in forma positiva (per es., ho il b. di essere suo amico).
3. Amore, affetto: per il b. che io ti porto. Molto comune la locuz. voler b., amare, nutrire affetto (propr., desiderare il bene, cioè il benessere, della persona amata): gli vuol b. come a un figlio; si fa voler b. da tutti; volere un gran b., un b. dell’anima, un ben di vita, amare molto; voglimi b., come chiusa epistolare, ormai in disuso; reciproco, volersi b., amarsi, nutrire affetto scambievole.
4. In qualche caso, pace, quiete, tranquillità: ho un mal di testa che non mi dà b. un momento; non ha avuto un po’ di b. da quando le è successa quella disgrazia (v. anche benavere), con senso sim., mettere b. fra due persone, rappacificarle, farle andare d’accordo.
5. Locuz. particolari: dire b. di qualcuno, lodarlo, esprimere giudizî favorevoli su di lui; fare il b., agire rettamente, secondo le norme di una sana morale (con altra accezione: andate a aspettare in chiesa, che intanto potrete fare un po’ di b. [Manzoni], acquistare dei meriti con la recitazione di preghiere, con devozioni e sim.); fare del b. a qualcuno, beneficarlo, aiutarlo (rispettivam., ricevere del b., esser beneficato, aiutato); più genericamente, far b., giovare: la pioggia fa b. alle piante; una buona parola fa b. all’animo; bevi un sorso di vino, ti farà b. (usato assol., far b., s’intende alla salute: il moto fa b.); opere di b., di beneficenza; pensare a b., supporre buone intenzioni, non fare giudizî temerarî. Per le locuz. da bene e per bene, oggi scritte soltanto in grafia unita, v. dabbene e perbene.
6. concr.
6.a. Ogni mezzo atto alla soddisfazione dei bisogni dell’uomo (nel linguaggio econ., quasi sempre sinon. di merce). In partic.: b. economico, qualsiasi mezzo, come sopra definito, di cui vi sia disponibilità relativamente limitata e sia quindi suscettibile di avere un prezzo, contrapposto a b. libero, cioè non scarso rispetto alla domanda, e che non ha valore di scambio pur potendo avere utilità (aria e acqua non sono, per es., beni economici dove siano abbondanti o disponibili, ma lo sono, rispettivamente, in una miniera profonda e in un deserto); b. mobili, immobili, produttivi, improduttivi; b. patrimoniali, quelli costituenti un patrimonio; b. durevoli, quelli che, immessi al consumo, non si esauriscono se non con un uso prolungato nel tempo; b. indiretti o strumentali, quelli utilizzati per produrre altri beni (per es., le materie prime, i macchinarî, ecc.), e con senso analogo b. capitale; b. diretti, quelli che senza ulteriori trasformazioni sono già in grado di soddisfare bisogni; b. di consumo, beni diretti destinati al soddisfacimento di bisogni individuali e familiari e che si distruggono con l’uso che se ne fa avendo comunque durata limitata; b. complementari (o ad offerta congiunta), quelli che per soddisfare un bisogno debbono essere usati congiuntamente (automobili e benzina, elettrodomestici ed elettricità, ecc.); b. supplementari (o succedanei o concorrenti), quelli che, entro certi limiti, possono sostituirsi gli uni agli altri (burro e margarina, penna e macchina per scrivere, ecc.); b. di prestigio, quelli (come le automobili e le imbarcazioni di lusso, i vini pregiati, le pellicce, ecc.) la cui domanda non si riduce o addirittura aumenta all’aumentare del loro prezzo, rappresentando quest’ultimo l’indice della ricchezza e della posizione sociale di chi li acquista; b. rifugio, beni che soprattutto in periodo d’inflazione sono ritenuti dai risparmiatori in grado di preservare il valore reale (cioè il potere d’acquisto) della moneta spesa per acquistarli: per es., quadri d’autore, monete antiche o di metallo prezioso, gioielli, case e altri immobili, il cui prezzo dovrebbe crescere almeno nella ragione della svalutazione della moneta; b. inferiori, quelli acquistati dalle classi a reddito più basso e la cui domanda si contrae non appena il reddito sale. In senso più ampio, b. artistici, b. archeologici, b. ambientali, ecc., il patrimonio nazionale sia naturale sia storico, inteso come insieme di ricchezze inalienabili che debbono essere valorizzate e tramandate come bene pubblico, perché soddisfano essenzialmente bisogni collettivi, tutelate quindi secondo le leggi dello stato e non secondo l’arbitrio di privati: ministero per i B. culturali e ambientali, istituito in Italia nel 1975 al fine di tutelare e valorizzare il patrimonio culturale italiano (per una più precisa definizione, anche in sede giur., della locuz. b. culturali, v. culturale). Appartengono al linguaggio generico, non tecnico, altre espressioni, come b. necessarî, b. indispensabili, b. superflui, secondo che siano ritenuti tali per la vita dell’uomo e per la soddisfazione dei suoi vitali bisogni.
6.b. Nel linguaggio eccles., b. terreni, le proprietà, le ricchezze, e in genere ciò che l’uomo possiede o desidera di possedere unicamente per il suo benessere fisico, detti anche b. fallaci, mondani, materiali, effimeri, in contrapp. ai b. spirituali o veraci, ritenuti il vero oggetto a cui devono essere volte le aspirazioni dell’uomo.
6.c. Nel linguaggio com., beni di fortuna, o assol. beni, possedimenti, averi, ricchezze: b. personali, beni di famiglia; ha perduto tutti i suoi b.; ha molti b. in Sicilia; sequestrare, confiscare i beni. In partic., ben di Dio (anche in grafia unita, bendidìo), ciò che serve alla vita (soprattutto viveri, e s’intende di solito che ve ne sia abbondanza): ha la casa piena d’ogni ben di Dio; con altro senso: ha speso il ben di Dio, una ricchezza, un capitale.
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Bene (filosofia)
In filosofia, con il termine “bene” si indica generalmente tutto ciò che agli individui appare desiderabile e tale che possa essere considerato come fine ultimo da raggiungere nella propria esistenza. Questo è l’aspetto “etico” del concetto di bene; ma nella storia della filosofia è stato avanzato anche un significato “ontologico” con Platone e i suoi successori ed epigoni che stabilivano un’equiparazione tra Buono, Bello e Vero (Kalokagathia). Questa concezione è stata assunta anche dal cristianesimo, poiché il Dio cristiano è infatti, oltre che onnipotente e onnisciente, l’essenza della bontà, della bellezza e della verità.
Spesso il concetto di bene assume un significato pragmatico e si identifica con quello di “azione buona”, come nell’espressione “fare del bene”, equivalente a “compiere buone azioni”, cioè azioni che rispondano a regole morali che ci si autoimpone. Così è nelle morali autonome, o che vengano indicate dall’esterno come leggi da osservare, come nelle morali eteronome.
Il concetto di bene è tipicamente opposto a quello di male che, come quello di “bene”, ha assunto nella filosofia occidentale un significato sia etico che ontologico. Nel pensiero orientale il male ha anche un valore gnoseologico, perché corrisponde all’ignoranza del divino e del vero.
La dottrina, che si propone di stabilire criteri razionali per esprimere un giudizio di valore riguardo l’agire umano, è l’etica, ovvero la morale.
Il concetto nella storia della filosofia
Nella storia della filosofia il concetto di bene è stato delineato secondo due diverse concezioni:
- quella metafisico-oggettivistica
- quella soggettivistica
Su questa distinzione si fonda il tema, da sempre uno dei più dibattuti in ambito filosofico, religioso e politico, con risultati che, se per certi aspetti sembrano convergere verso tesi condivise, da altri portano alla creazione di teorie filosofiche, sociologiche e politiche del tutto inconciliabili ed antagoniste. I diversi contesti culturali, inoltre, possono influenzare sostanzialmente la percezione del grado di “moralità”, ovvero di “accettabilità sociale” delle azioni degli individui.
Nell’ambito del soggettivismo si trova quella dottrina filosofica del relativismo che, negando alla radice la capacità umana di stabilire criteri di giudizio oggettivamente validi riferibili alla maggior parte degli atti conoscitivi umani, nega implicitamente anche le basi su cui si fonda la morale tradizionale.
Secondo il relativismo l’unico “organismo” in grado di esprimere un giudizio di valore sul grado di “bontà” di un certo comportamento umano è l’intera comunità di cui i singoli individui fanno parte. In questa logica, quanto maggiore sarà il consenso riscosso, quanto più giusto (cioè “buono”) un individuo (o un comportamento) saranno “legittimamente” considerati. Le cosiddette leggi morali non potrebbero, quindi, essere valide in senso assoluto, ma dovrebbero, al pari di tutte le altre leggi, trovare la propria convalida nell’approvazione dell’intero corpo sociale, o quantomeno di una sua qualificata maggioranza.
Alla concezione metafisico-oggettivistica appartengono invece la maggior parte delle dottrine religiose che si oppongono a questo modo soggettivistico di intendere la morale, ed asseriscono che le leggi morali, o in quanto rispondenti a principi naturali universali, immanenti nella natura stessa, o perché “dettate” da un’entità divina superiore, sono verità “rivelate”, valide di per sé e vincolanti per gli individui che in queste dottrine si vogliono riconoscere. Per un credente, quindi, è la divinità che rappresenta l’ideale di “bene assoluto”.
La concezione oggettivistica
Platone
La prima si trova soprattutto nel pensiero antico e medioevale.
Per Platone il Bene è pari al Sole (Repubblica, VI 508 sgg.): come il sole con la sua luce dà visibilità alle cose, così il Bene dà intelligibilità alle idee, cioè rende possibile alle idee di essere capite; e come il sole con la luce dà capacità visiva all’occhio così il Bene dà intelligenza, capacità di capire all’anima.
Quindi c’è una omogeneità, una parentela tra le cose che si capiscono e l’anima che le capisce, e questa parentela è rappresentata dal Bene.
Come il sole infine, con il suo calore rende possibile la vita, così il Bene fa sì che ciascuna idea e ciascuna cosa esistano.
Tutto il mondo esiste perché è bene che esista. Le cose esistono perché sono buone e le cose essendo buone sono uno strumento per arrivare al Bene. Una concezione finalistica della natura simile a quella cristiana. Dio ha creato il mondo per bontà, e ha creato gli uomini perché praticassero il bene.
Secondo Platone, i beni sono di due specie: umani e divini. Detto altrimenti, vi sono almeno due modi principali di interpretare il Bene: la modalità meramente “umana” consiste nel ridurre il Bene a ciò che è utile e vantaggioso per gli umani. Si ha così una concezione relativistica, utilitaristica ed antropocentrica del Bene.
Ma il Bene in sé stesso, il Bene che trascende perfino l’essenza ha una configurazione ben più ampia, anzi illimitata, sottraendosi ai condizionamenti umani: per questo ha carattere divino, ed è per lo più considerato il Primo Dio.
Il Bene incondizionato è paragonabile simbolicamente al Sole, che risplende su tutti gli esseri e non solo sugli umani: a questo proposito è lecito parlare di “respiro cosmico del Bene”, proprio per evidenziare il superamento delle concezioni parziali e moralistiche del Bene, calibrate sulle aspettative umane.
Il Bene in sé è incondizionato, divino poiché trascende ogni limitazione, e per essere avvicinato richiede un’apertura noetica (intellettiva) completa: esso si colloca «al limite estremo dell’intelligibile», e proprio per questo «è difficile a vedersi». La dottrina platonica del Bene costituisce il vertice dell’intera metafisica platonica. Commentando i passi di Platone incentrati sul Bene, i Neoplatonici svilupperanno la concezione dell’Uno aformale, in sintonia con quanto precedentemente elaborato da Platone.
Inoltre il Bene è come il Bello: distribuito lungo una “gradazione” le cui tappe devono essere percorse fino all’Ideale perfetto. I Neoplatonici riprenderanno pure questo concetto.
Aristotele
Aristotele entra in polemica con Platone (Ethica nicomachea, 1): il bene non può essere un’idea trascendente il mondo dove l’uomo vive ed opera, il bene è ciò che l’uomo mette in atto nel suo comportamento concreto.
Aristotele però rientra anche lui nell’ambito del finalismo platonico quando concepisce la somma perfezione, il bene come Atto puro o come motore immobile che è la premessa indispensabile che permette che ci sia il continuo realizzarsi delle cose passando dalla potenza all’atto e che spiega l’anelito di tutte le cose nel dirigersi verso la perfezione dell’Atto puro.
Plotino
Plotino riprende la concezione platonica: il principio supremo che Platone denominava Bene, in Plotino viene più spesso indicato come Uno aformale. Questa corrispondenza trova riscontro in innumerevoli passi delle Enneadi (e in particolare in Enneadi, V 5,10). Altrove Plotino, seguendo anche qui Platone, distingue varie gradazioni del Bene, culminanti appunto nel “Bene superiore agli altri beni” (vedi Enneadi, VI 9, 6) : quindi le cose sono relativamente buone in quanto emanano direttamente da lui, lo imitano ossia partecipano della sua natura sia pure con intensità diversificata.
Cristianesimo
Questa concezione è ravvisabile nel pensiero cristiano che però la modifica in senso creazionista. Le cose sono direttamente create per volontà provvidenziale del Creatore e quindi mantengono di Lui l’essenza buona. Secondo Agostino, il carattere limitato e corruttibile dei beni terreni non è un difetto della creazione divina, ma un segno della sua perfezione. Quel carattere genera, infatti, una varietà di beni e una gradazione tra di essi, rendendo il mondo più ricco e completo.
Ciononostante, ne La città di Dio Agostino prospetta anche una netta antitesi, una discontinuità e una contrapposizione dicotomiche nell’ambito dell’amore, fra l’amor sui e l’amor Dei, l’amore verso sé stessi e verso Dio. Inoltre già nelle Confessioni VII,10.16 scrive aliud, aliud valde, formulando l’idea d’un Dio totalmente Altro rispetto alla coscienza umana. Così l’Ipponate viene considerato il padre della teologia negativa cristiana per questa sua accentuazione della via negationis a scapito della via affirmationis (o anche solo la via eminentiae), la quale è invece ben presente addirittura nelle stesse Confessioni, lì dove egli sostiene l’albergare di Dio nell’interiorità di ogni essere umano.
a) VI,1.1:
(LA) – «quaerebam te foris a me et non inveniebam Deum cordis mei.»
(IT) – «ti cercavo fuori di me e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore (Salmo 72. 26).»
b) X, 27.38:
(LA) – «intus eras et ego foris et ibi te quaerebam […] Mecum eras, et tecum non eram.»
(IT) – «tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. […] Eri con me, e non ero con te.»
Si consideri infine il celebre aforisma espresso nel De vera religione, XXXIX, 72:
(LA) – «Noli foras ire, in teipsum redi; in interiore homine habitat veritas; et si tuam naturam mutabilem inveneris, transcende et teipsum.»
(IT) – «Non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore e, se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso.»
D’altronde è innegabile che già le sue influenze platoniche e neoplatoniche evidenziassero una teologia negativa pre-cristiana.
Nel Medioevo
Secondo la dottrina scolastica dei trascendentali essere e bene sono equivalenti: il bene si identifica con l’essere e le varie gradazioni dell’uno coincidono con l’altro: Dio è sommo Bene e sommo Essere e le creature sono buone in quanto create a sua immagine e somiglianza.
La concezione soggettivistica
È questa nell’antichità la concezione preminente dei sofisti con la loro etica relativistica ma è soprattutto nel pensiero moderno e contemporaneo che si afferma come una teoria che definisce bene ciò che il soggetto percepisce, desidera e vuole ciò che per lui è buono.
Tale soggettività può essere di natura empirica, e in questo caso sfocia nel relativismo, come quello dei libertini o di Thomas Hobbes o, come in Kant, questa soggettività è tale da appartenere a quello che tutti gli uomini hanno in comune: l’essere dotati di ragione; una soggettività universale che si rispecchia in una legge universale e formale della volontà buona che prescinde, in un certo senso trascende le singole volontà particolari.
Nella filosofia contemporanea accesa è la polemica tra le visioni soggettivistiche e oggettivistiche del bene: aderisce a quest’ultima lo spiritualismo che intende il bene com’era nella dottrina antica e medioevale e altrettanto fa il neoidealismo che però, nella linea dell’idealismo romantico, cerca di andare oltre la visione formale kantiana ed elabora una metafisica della soggettività dove salva una visione oggettivistica del bene.
Nel pragmatismo, nel neopositivismo e nella filosofia analitica prevale la concezione soggettivistica affermata più o meno radicalmente.
Una posizione differenziata e particolare è quella tenuta dalla fenomenologia e da certi correnti del neorealismo, come quella che fa capo a George Edward Moore, che affermano l’oggettività del bene o più genericamente dei valori negando però che essa possa essere ricondotta a qualsiasi considerazione teologica com’era nel passato. In particolare Moore sostiene nella sua opera Principia ethica che il Bene sia un concetto semplice di cui non si può dare alcuna definizione, sia di natura fisica che metafisica, ma solo intuito (intuizionismo etico).
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