(Pubblichiamo quale contributo da parte del sito Lettera e Spirito la quasi totalità dell’articolo “Cuore e cervello” di René Guénon* della raccolta n° 39, attribuito qui alla categoria Ideali/Valori per l’illuminante dissertazione sul rapporto di valore tra il Cuore e il Cervello – le immagini e il numero delle note sono a cura della redazione TPS)
“(…) «… Se v’è un movimento essenziale, è quello che ha fatto dell’uomo un essere verticale, dalla stabilità volontaria, un essere i cui slanci ideali, le preghiere, i sentimenti più elevati e più puri salgono come incenso verso il Cielo. Di quest’essere, l’Essere supremo fece un tempio nel Tempio e per questo lo dotò di un cuore, cioè di un punto d’appoggio immutabile, di un centro di movimento rendente l’uomo adeguato alle sue origini, simile alla sua Causa prima. Nello stesso tempo, è vero, l’uomo fu provvisto di un cervello; ma questo cervello, la cui innervazione è propria dell’intero regno animale, si trova, de facto, sottomesso a un ordine di movimento secondario (in rapporto al movimento iniziale). Il cervello, strumento del pensiero rinchiuso nel mondo e trasformatore a uso dell’uomo e del mondo di quel Pensiero latente, lo rende così realizzabile per suo tramite. Ma il solo cuore, grazie a un’aspirazione e un’espirazione segrete, permette all’uomo, rimanendo unito al suo Dio, d’essere Pensiero vivente. Così, grazie a questa pulsazione regale, l’uomo conserva la sua parcella di divinità e opera sotto l’egida del suo Creatore, curante della sua Legge, lieto di una felicità che unicamente a lui tocca strappare a se stesso, allontanandosi dalla via segreta che conduce dal suo cuore al Cuore universale, al Cuore divino … Ricaduto al livello dell’animalità, per quanto superiore abbia il diritto di chiamarla, l’uomo può fare uso solo del cervello e dei suoi annessi. Così facendo, egli vive delle sue sole possibilità trasformatrici; vive del Pensiero latente diffuso nel mondo; ma non è più in suo po- tere d’essere Pensiero vivente. Tuttavia, le Religioni, i Santi, gli stessi monumenti elevati sotto il segno di un’ordinazione spirituale scomparsa, parlano all’uomo della sua origine e dei privilegi che vi si ricollegano. Per poco che lo voglia, la sua attenzione rivolta esclusivamente ai bisogni inerenti al suo stato relativo può esercitarsi a ristabilire in lui l’equilibrio, a recuperare la felicità … L’eccesso dei suoi smarrimenti porta l’uomo a riconoscerne l’inanità. Esausto, eccolo con un movimento istintivo ripiegarsi su se stesso, rifugiarsi nel proprio cuore, e, timidamente, cercare di discendere nella sua cripta silenziosa. Qui, i rumori vani del mondo tacciono. Se ne rimangono, si è che la muta profondità non è ancora raggiunta, l’augusta soglia non è ancora varcata … Il mondo e l’uomo sono uno. E il Cuore dell’uomo, il Cuore del Mondo sono un solo Cuore».
Coloro che hanno avuto conoscenza dei nostri precedenti articoli non stenteranno a ritrovarvi l’idea del cuore come centro dell’essere, idea che, come abbiamo spiegato (e vi ritorneremo ancora), è comune a tutte le antiche tradizioni, provenienti da quella Tradizione primordiale le cui vestigia s’incontrano ancora dovunque per chi le sappia vedere. Vi ritroveranno anche l’idea della caduta che respinge l’uomo lontano dal suo centro originario, e interrompe la sua comunicazione diretta con il “Cuore del Mondo”, qual era stabilita in modo normale e permanente nello stato edenico [1]. Vi ritroveranno infine, per quanto concerne il ruolo centrale del cuore, l’indicazione del doppio movimento centripeto e centrifugo, paragonabile alle due fasi della respirazione [2]; è vero che, nel passaggio che stiamo per citare ora, la dualità di questi movimenti è riferita a quella del cuore e del cervello, il che sembra a prima vista introdurre qualche confusione, sebbene ciò possa anche reggersi quando ci si ponga da un punto di vista un po’ diverso, in cui cuore e cervello sono considerati come costituenti in qualche modo due poli nell’essere umano.
«Nell’uomo, la forza centrifuga ha come organo il Cervello, la forza centripeta, il Cuore. Il Cuore, sede e conservatore del movimento iniziale, è rappresentato nell’organismo corporeo dal movimento di diastole e di sistole che riporta continuamente al suo propulsore il sangue generatore di vita fisica e di qui lo rimanda a irrigare il campo della sua azione. Ma il Cuore è altro ancora. Come il Sole che, pur spandendo gli effluvi di vita, custodisce il segreto della sua regalità mistica, il Cuore riveste delle funzioni sottili non discernibili da chi non si sia chinato sulla vita profonda e non abbia concentrato la sua attenzione sul regno interiore di cui è il Tabernacolo … Il Cuore è, a nostro modo di vedere, la sede e il conservatore della vita cosmica. Lo sapevano le religioni che hanno fatto del Cuore il sacro simbolo, e i costruttori di cattedrali che hanno eretto il santo luogo nel cuore del Tempio. Lo sapevano anche, coloro che, nelle tradizioni più antiche, nei riti più segreti, facevano astrazione dall’intelligenza discorsiva, imponendo il silenzio al loro cervello per entrare nel Santuario ed elevarvisi oltre il loro essere relativo fino all’Essere dell’essere. Questo parallelismo del Tempio e del Cuore ci riconduce al duplice modo di movimento che, da una parte (modo verticale), eleva l’uomo di là di se stesso e lo libera dal processo proprio alla manifestazione, e, d’altra parte (modo orizzontale o circolare), lo rende partecipe di questa manifestazione nella sua interezza».
Il paragone del Cuore e del Tempio, al quale si fa qui allusione, l’abbiamo trovato più particolarmente nella Cabala ebraica [3], e, come indicavamo in precedenza, vi si possono ricollegare le espressioni di certi teologi del medioevo assimilanti il Cuore di Cristo al Tabernacolo o all’Arca dell’Alleanza [4]. D’altra parte, per quanto riguarda la considerazione del movimento verticale e orizzontale, essa si riferisce a un aspetto del simbolismo della croce, specialmente sviluppato in certe scuole dell’esoterismo musulmano, e di cui forse un giorno parleremo; infatti è di questo simbolismo che si tratta nel seguito dello stesso studio, e noi ne stralceremo un’ultima citazione, il cui inizio potrà essere accostato a quanto abbiamo detto, a proposito dei simboli del centro, sulla croce nel cerchio e sullo swastika [5].
«La Croce è il segno cosmico per eccellenza. Per quanto è possibile risalire nel tempo, la Croce rappresenta ciò che unisce nel loro duplice significato il verticale e l’orizzontale; essa rende partecipe il movimento che è loro proprio di un solo centro, di uno stesso atto generatore … Come non accordare un senso metafisico a un segno suscettibile di rispondere così completamente alla natura delle cose? Per il fatto d’essere divenuta il simbolo quasi esclusivo della divina crocifissione, la Croce non ha fatto che accentuare il suo sacro significato. Infatti, se fin dalle origini questo segno fu rappresentativo dei rapporti del mondo e dell’uomo con Dio, diveniva impossibile non identificare la Redenzione con la Croce, non inchiodare sulla Croce l’Uomo il cui Cuore è al massimo grado rappresentativo del divino in un mondo dimentico di tale mistero. Se facessimo qui dell’esegesi, sarebbe facile mostrare fino a che punto i Vangeli e il loro profondo simbolismo siano significativi a tale riguardo. Il Cristo è più di un fatto, del grande Fatto di duemila anni fa. La sua figura è di tutti i secoli. Essa sorge dalla tomba in cui discende l’uomo relativo, per risuscitare incorruttibile nell’Uomo divino, nell’Uomo riscattato dal Cuore universale che batte nel cuore dell’Uomo, e il cui sangue è versato per la salvezza dell’uomo e del mondo». (…)
Abbiamo visto poco fa che si possono, in un certo senso, considerare il cuore e il cervello come due poli, cioè come due elementi complementari; questo punto di vista del complementarismo corrisponde effettivamente a una realtà in un certo ordine, a un certo livello, se si può dire; è anche meno esteriore e meno superficiale del punto di vista della pura e semplice opposizione, che pure racchiude anch’esso una parte di verità, ma solamente quando ci si limiti alle apparenze più immediate. Con la considerazione del complementarismo, l’opposizione si trova già conciliata e risolta, almeno fino a un certo punto, i suoi due termini equilibrandosi in qualche modo l’uno con l’altro. Tuttavia, tale punto di vista è ancora insufficiente, per il fatto stesso che lascia malgrado tutto sussistere una dualità: dire che vi sono nell’uomo due poli o due centri, tra i quali può d’altronde esservi antagonismo o armonia secondo i casi, è vero quando lo si consideri in un certo stato; ma non si tratta forse di uno stato che si potrebbe dire “decentrato” o “disunito”, e che, come tale, non caratterizza propriamente che l’uomo decaduto, quindi separato dal suo centro originario come ricordavamo sopra? È nello stesso momento della caduta che Adamo diventa “conoscente il bene e il male” (Genesi, III, 22), vale a dire comincia a considerare tutte le cose sotto l’aspetto della dualità; la natura duale dell’“Albero della Scienza” gli appare quando si trova scacciato dal luogo dell’unità prima, alla quale corrisponde l’“Albero della Vita”[6].
Comunque sia, quel che è certo è che, se la dualità esiste davvero nell’essere, ciò non può essere che da un punto di vista contingente e relativo; se ci si pone da un altro punto di vista, più profondo e più essenziale, o se si considera l’essere nello stato che corrisponde a questo, l’unità di tale essere deve trovarsi ristabilita [7]. Allora, il rapporto tra i due elementi che erano apparsi dapprima come opposti, poi come complementari, diviene altro: è un rapporto, non più di correlazione o di coordinazione, ma di subordinazione. I due termini di questo rapporto, infatti, non possono più essere posti su uno stesso piano, come se vi fosse tra loro una sorta d’equivalenza; al contrario l’uno dipende dall’altro come avesse in esso il suo principio; e tale è proprio il caso per ciò che rappresentano rispettivamente il cervello e il cuore.
Per far comprendere questo, ritorneremo al simbolismo che abbiamo già indicato [8], e secondo il quale il cuore è assimilato al sole e il cervello alla luna. Ora il sole e la luna, o piuttosto i principi cosmici rappresentati da questi due astri, sono spesso raffigurati come complementari, ed essi lo sono infatti da un certo punto di vista; si stabilisce allora tra loro una sorta di parallelismo o di simmetria, di cui sarebbe facile trovare esempi in tutte le tradizioni. È così che l’ermetismo fa del sole e della luna (o dei loro equivalenti alchemici, l’oro e l’argento) l’immagine dei due principi, attivo e passivo, o maschile e femminile secondo un altro modo espressivo, che sono proprio i due termini di un vero complementarismo [9]. D’altronde, se si considerano le apparenze del nostro mondo, com’è legittimo fare, il sole e la luna hanno effettivamente ruoli paragonabili e simmetrici, essendo, secondo l’espressione biblica, “i due grandi astri uno dei quali presiede al giorno e l’altro alla notte” (Genesi, I, 16); e certe lingue estremo-orientali (cinese, annamita, malese) li designano con dei termini ugualmente simmetrici, significanti “occhio del giorno” e “occhio della notte”. Eppure, se si va oltre le apparenze, non è più possibile mantenere questa sorta d’equivalenza, poiché il sole è di per sé una sorgente di luce, mentre la luna non fa che riflettere la luce che riceve dal sole [10]. La luce lunare non è in realtà che un riflesso della luce solare; si potrebbe quindi dire che la luna, come “astro luminoso”, non esiste che per il sole. Ciò che è vero per il sole e la luna lo è anche per il cuore e il cervello, o, per dir meglio, per le facoltà cui corrispondono questi due organi e che sono da essi simboleggiate, vale a dire l’intelligenza intuitiva e l’intelligenza discorsiva o razionale. Il cervello, quale organo o strumento di quest’ultima, non svolge veramente che un ruolo di “trasmettitore” e, se si vuole, di “trasformatore”; e non è senza motivo che la parola “riflessione” è applicata al pensiero razionale, con il quale le cose non sono viste che come in uno specchio, quasi per speculum, come dice san Paolo. E non è neppure senza motivo che una stessa radice man o men è servita, in diverse lingue, a formare numerose parole che designano da una parte la luna (greco mênê, inglese moon, tedesco mond) [11], e dall’altra la facoltà razionale o il “mentale” (sanscrito manas, latino mens, inglese mind) [12], e così, di conseguenza, l’uomo considerato più specialmente nella natura razionale dalla quale è definito specificamente (sanscrito mânava, inglese man, tedesco mann e mensch) [13]. La ragione, infatti, che è solo una facoltà di conoscenza mediata, è il modo propriamente umano dell’intelligenza; l’intuizione intellettuale può essere detta sopra-umana, poiché è una partecipazione diretta all’Intelligenza universale, che, risiedendo nel cuore, cioè al centro stesso dell’essere, là dov’è il suo punto di contatto con il Divino, penetra quest’essere dall’interno e lo illumina con il suo irradiamento [14].
La luce è il simbolo più consueto della conoscenza; è dunque naturale rappresentare con la luce solare la conoscenza diretta, vale a dire intuitiva, che è quella del puro intelletto, e con la luce lunare la conoscenza riflessa, vale a dire discorsiva, che è quella della ragione. Come la luna non può dare la sua luce se non è a sua volta illuminata dal sole, nello stesso modo la ragione non può funzionare validamente, nell’ordine di realtà che è il suo dominio proprio, che sotto la garanzia di principi che la illuminino e la dirigano, e che essa riceve dall’intelletto superiore. V’è su questo punto un equivoco che è importante dissipare: i filosofi moderni [15] si sbagliano stranamente parlando come fanno di “principi razionali”, come se tali principi fossero propri della ragione, come se fossero in qualche modo opera sua, mentre, per governarla, oc- corre al contrario necessariamente che essi le si impongano, dunque che vengano da più in alto; è questo un esempio dell’errore razionalista, e ci si può rendere conto con ciò dell’essenziale differenza che esiste tra il razionalismo e il vero intellettualismo. Basta riflettere un istante per comprendere che un principio, nel senso vero della parola, per il fatto stesso di non poter essere tratto o dedotto da altro, non può essere colto che immediatamente, quindi intuitivamente, e non può essere l’oggetto di una conoscenza discorsiva come quella che caratterizza la ragione; per servirci qui della terminologia scolastica, è l’intelletto puro a essere habitus principiorum, mentre la ragione è solamente habitus conclusionum.
Un’altra conseguenza risulta ancora dai caratteri fondamentali dell’intelletto e della ragione: una conoscenza intuitiva, per il fatto d’essere immediata, è necessariamente di per sé infallibile [16]; al contrario, l’errore può sempre introdursi in ogni conoscenza indiretta o mediata qual è la conoscenza razionale; e da ciò si vede quanto avesse torto Descartes a voler attribuire l’infallibilità alla ragione. È quanto Aristotele esprime in questi termini [17]: «Tra gli averi dell’intelligenza [18], in virtù dei quali raggiungiamo la verità, ve ne sono alcuni che sono sempre veri, e altri che possono indurre in errore. Il ragionamento appartiene a quest’ultimo caso; ma l’intelletto è sempre conforme alla verità, e nulla è più vero dell’intelletto. Ora, essendo i principi più notori della dimostrazione, ed essendo ogni scienza accompagnata da ragionamento, la conoscenza dei principi non è una scienza (ma è un modo di conoscenza superiore alla conoscenza scientifica o razionale, e che costituisce propriamente la conoscenza metafisica). D’altronde, solo l’intelletto è più vero della scienza (o della ragione che edifica la scienza); dunque i principi dipendono dall’intelletto». E, per affermare meglio il carattere intuitivo di quest’intelletto Aristotele dice ancora: «Non si dimostrano i principi, ma se ne percepisce direttamente la verità» [19].
Questa percezione diretta della verità, quest’intuizione intellettuale e sopra-razionale di cui i moderni sembrano aver perduto fin la semplice nozione, è veramente la “conoscenza del cuore” secondo un’espressione che s’incontra frequentemente nelle dottrine orientali. Tale conoscenza è del resto, di per sé, qualcosa d’incomunicabile; occorre averla “realizzata”, almeno in una certa misura, per sapere che cos’è veramente; e tutto ciò che se ne può dire non ne fornisce che un’idea più o meno approssimativa, sempre inadeguata. Soprattutto, sarebbe un errore credere che si possa comprendere effettivamente quale sia il genere di conoscenza di cui si tratta quando ci si accontenta di considerarla “filosoficamente”, cioè dal di fuori, giacché non bisogna mai dimenticare che la filosofia non è che una conoscenza puramente umana o razionale, come lo è ogni “sapere profano”. Al contrario, è sulla conoscenza sopra-razionale che si fonda essenzialmente la “scienza sacra”, nel senso in cui impieghiamo quest’espressione terminando il nostro ultimo articolo [20]; e tutto quanto abbiamo detto sull’uso del simbolismo e sull’insegnamento che vi è contenuto si riferisce ai mezzi che le dottrine tradizionali mettono a disposizione dell’uomo per permettergli di giungere a questa conoscenza per eccellenza, di cui ogni altra conoscenza, nella misura in cui ha anch’essa una qualche realtà, non è che una partecipazione più o meno lontana, un riflesso più o meno indiretto, così come la luce della luna non è che un pallido riflesso di quella del sole. La “conoscenza del cuore”, è la percezione diretta della Luce intelligibile, di quella Luce del Verbo di cui parla san Giovanni all’inizio del suo Vangelo, Luce irradiante dal “Sole spirituale “che è il vero Cuore del Mondo”.”