Lasciamo temporaneamente la sfera sonora, per guardare più lontano o forse più vicino; questione di prospettiva. Come viatico si può ascoltare questa curiosità musicale: lo stralcio di una combinazione di ritmo, melodia ed armonia composta, nella prima metà del novecento; una moderna danza sacra. Fa parte anch’essa del tesoro che l’umanità ha accumulato nell’anelito di conoscere il proprio campo d’esistenza ed il suo posto in esso.
Grazie all’Armonica, per mezzo degli argomenti sviluppati in precedenza, siamo entrati in relazione con la sfera della vibrazione acustica, cogliendone alcuni aspetti che, pur noti alla fisica ed all’arte musicale, hanno aperto prospettive d’osservazione nuove ed insolite. In estrema sintesi si è distinto tra suoni e rumori e, nell’ambito della prima categoria, si è considerato lo sviluppo delle armoniche superiori che consente al mondo fisico vibrante di manifestare la sua inerente e continua attività creativa. Infatti non è possibile suscitare un suono senza chiamare in manifestazione la sua progenie, ciò implica una potenziale catena infinita di individualità sonore, ciascuna con la sua discendenza e ciascuno di questi nuovi suoni con la sua. Esse sono ordinate secondo il rapporto che la lunghezza d’onda di ciascuna ha con la capostipite; otteniamo ciò che in matematica è l’insieme infinito dei numeri razionali; questa infinità è strutturata dal canone armonico che ci consente di conoscerla e percorrerla grazie alla qualità dei rapporti piuttosto che alle quantità delle misure finite.
Ora può essere utile ampliare l’orizzonte scorrendo brevemente l’epopea della conoscenza scientifica di un altro fenomeno vibratorio, quello elettromagnetico che, nella sua fase moderna, prese le mosse dall’ipotesi di perfetta similitudine tra le cause degli eventi sonori e quelle degli eventi luminosi. Come vedremo l’ipotesi, così com’era formulata, non si rivelò esatta ma aprì ad una nuova definizione del campo d’esistenza universale, nella cui intima trama non esisterà più necessità logica di separazione tra eventi, luoghi, tempi ed esseri (preferiamo questo termine a quello più scientifico di oggetti). Esiste un coerenza “non locale”, che si rivela a livello sub atomico e permane oltre ad esso, mascherata dalle varie apparenze formali, tale che “qui ed ora” ed “ovunque e sempre”, ed anche “interazione mediata” ed “immediata” si rivelano versanti del medesimo picco di apparenze.
Va ricordato che il seme di ciò che successe sul versante scientifico negli anni a cui ci riferiamo, fu interrato da Galileo Galilei che, intorno al 1636 fece convenire nel suo studio, in Pisa, tre personaggi virtuali, Sagredo, Simplicio e Salviati1 destando tra loro il “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, copernicano e tolemaico” ove, per bocca dei suoi ospiti, egli prende le misure del nuovo modello eliocentrico, ed introduce la prima formulazione del concetto di relatività, al quale devono sottostare le osservazioni dei corpi in moto nello spazio e tutti lo sono sempre, osservatore compreso. La forma letteraria, del suo trattato scientifico, ancor oggi apprezzabile, non risparmiò al libro di essere messo all’indice ed a Galileo di passare i guai che sappiamo, ma attraverso le maglie della storia umana la sua relatività giunse ancor valida sino alla fine del XIX secolo quando accese nuovi dialoghi ed esperimenti.
Nel 1887 i due fisici Albert Michelson e Edward Morley2 realizzarono un famoso esperimento che avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza dell’etere luminifero quale mezzo di propagazione delle onde elettromagnetiche nelle frequenze della luce visibile.
All’epoca, dell’esistenza dell’etere si era già “ragionevolmente” certi per analogia con la vibrazione sonora che, nel caso più tipico, si propaga nella miscela gassosa dell’atmosfera terrestre. Però mentre di questo “etere sonoro” si conoscevano ormai bene le caratteristiche fisico-chimiche, di quello elettromagnetico non si sapeva nulla per esperienza diretta, deducendo, appunto, la sua esistenza dal fatto che, esistendo le onde luminose, doveva necessariamente esistere un mezzo di cui esse costituivano le perturbazioni vibratorie.
In quegli anni alcuni ricercatori, anche dilettanti, compivano esperimenti con le onde radio estendendo l’esperienza umana dell’elettromagnetismo alle lunghezze d’onda maggiori, non visibili, così aprendo la via all’attuale civiltà (ed anche inciviltà) della comunicazione. S’incominciava ad intravedere che i messaggi in codice Morse del normale telegrafo via filo, potevano essere trasformati in perturbazioni eteriche che, ricevute per risonanza in un luogo remoto con un congegno speculare a quello di emissione, si prestavano a loro volta ad essere tradotte all’inverso, restituendo l’informazione di partenza. James Clerk Maxwell, con il suo trattato del 1873, rese nota al mondo scientifico la sua formulazione matematica dei fenomeni elettromagnetici che egli realizzò come opera di sintesi su parti teoriche e sperimentali frutto del lavoro di personaggi suoi contemporanei (A.M. Ampère, C.A. DeCoulomb, H.C. Oersted, J. Enry, M. Faraday e C.S. Gauss) che egli compose in una teoria matematica coerente, espressa da quattro equazioni che descrivono le modalità e le quantità del reciproco interagire di elettricità e magnetismo a generare le onde elettromagnetiche. Esse costituirono i pilastri del nuovo edificio teorico al cui cantiere contribuirono valenti capomastri ed operai3, chiamati al lavoro, si direbbe, da un perentorio decreto a migliorare la conoscenza.
Tradotto in termini concettuali il lavoro di Maxwell, può essere così riassunto:
-
Un flusso di cariche elettriche in un conduttore genera linee di forza magnetiche che si dispongono in direzione ortogonale ad esso. Anche un magnete, in movimento lungo un conduttore genera in esso un flusso di cariche elettriche.
-
Per descrivere compiutamente questa duplice interazione occorre ricorrere al concetto di “campo” svincolandola dai supporti fisici che l’hanno originata. Quindi:
-
Un campo elettrico variabile nello spazio “vuoto” produce un campo magnetico.
-
Un campo magnetico variabile nello spazio “vuoto” produce un campo elettrico.
-
Il campo elettrico e quello magnetico si accendono vicendevolmente, generando l’oscillazione elettromagnetica che così si auto-sostiene in una spirale potenzialmente infinita, propagandosi nello spazio “vuoto” indipendentemente dal persistere della sua sorgente.
-
La velocità di propagazione del campo elettromagnetico è uguale a quella della luce, ciò fece supporre a Maxwell che le onde luminose fossero di natura elettromagnetica. Oggi sappiamo che esse, ad esempio rispetto alle onde radio, differiscono solo per la maggiore frequenza, in altre parole per la minore lunghezza d’onda4.
-
Il sistema di equazioni di Maxwell fornì una completa descrizione quantitativa dei fenomeni elettromagnetici, permise di generarli, di misurarli, di prevederne il comportamento nel tempo e nello spazio ed introdusse il concetto di “campo” che pur coesistendo con quello di vuoto implica che questo vuoto possa manifestare e sostenere relazioni simmetriche tra energie. Il campo elettromagnetico diventò così un oggetto, per quanto sottile, della realtà.
Maxwell, da buon scienziato, si occupò dei come e non dei perché, delle quantità e non delle qualità.
Che cosa sono l’elettricità ed il magnetismo che mirabilmente cooperano ad auto-sostenersi, generando le onde elettromagnetiche, tra le quali la gamma luminosa? Questa attività ondulatoria, in grado di solcare l’oceano universale, scaturisce dal rapporto tra un’origine vettoriale, il campo elettrico, ed una spaziale, quello magnetico. E’ veramente un mero meccanismo materiale oppure l’eco, ai confini della manifestazione fisica, del metodo generativo della Vita?
Domande di questo genere sono vietate alla scienza di allora come a quella di oggi sconfinando nella filosofia, nella metafisica o… nella “Vera Biologia” i cui presupposti sorgevano contemporaneamente all’orizzonte della cultura planetaria moderna con la prima edizione completa de “La Dottrina Segreta” nel 1888. E’ opportuno sottolineare che il processo generativo del fronte elettro-magnetico si verifica in tutti i punti dello spazio attraversato. In termini energetici un’origine sostiene l’altra in modo alternato, e ciò che si propaga, in ultima analisi, è il loro rapporto vicendevole che viene percepito nei piani densi come luce, calore, onde radio eccetera, secondo la gamma dello “spettro”.
Comunque Maxwell, nella costruzione del suo edificio teorico, giunse a considerare la natura dello spazio; la qualità in cui agiscono le quantità che stava così efficacemente precisando. Nel brano che segue, egli riprende l’ipotesi che lo spazio contenga (o sia) un mezzo continuo le cui perturbazioni costituiscono i campi elettromagnetici.
“In parecchie parti di questo trattato si è tentato di spiegare i fenomeni elettromagnetici ricorrendo all’azione meccanica trasmessa da un corpo all’altro tramite un mezzo che occupi lo spazio tra loro interposto. La teoria ondulatoria della luce ipotizza pure l’esistenza di un mezzo. Dobbiamo ora dimostrare che le proprietà del mezzo elettromagnetico sono identiche a quelle del mezzo in cui si propaga la luce. […] Nella teoria dell’elettricità e del magnetismo sostenuta in questo trattato si riconoscono due forme di energia, l’elettrostatica e l’elettrocinetica, e si suppone che esse abbiano sede non solo nei corpi elettrizzati o magnetizzati, ma in ogni parte dello spazio circostante, in cui si osservi l’azione della forza elettrica o magnetica. Perciò la nostra teoria concorda con la teoria ondulatoria nel supporre l’esistenza di un mezzo che è in grado di diventare ricettacolo di due forme di energia.”5
L’aspirazione a riconoscere l’etere come qualità è dunque evidente nella Fisica di quegli anni. Si fondava sull’intuizione che dove gli occhi fisici e le loro estensioni strumentali vedono il “vuoto”, agisce il tessuto spaziale che è che la matrice del “pieno” ossia dei fenomeni osservabili. Anche nella scienza sembrava così profilarsi la soglia decisiva che dalla prigione del concetto “Materia” introduce alle ampiezze di quello “Sostanza/Energia” che, a sua volta, conduce, in breve, viene da dire, a quello di “Vita”.
Nel 1895 tre ricercatori, tra i quali il nostro Guglielmo Marconi, ottennero autonomamente risultati simili, riuscendo a trasmettere segnali radio a distanza, in forma strutturata e con modalità ripetibili; nasceva il telegrafo senza fili progenitore di tutte le applicazioni radio che caratterizzarono il novecento, sino ai giorni nostri.
Marconi fu un pioniere e si distinse anche nella prima fase di perfezionamento della strumentazione radio6, guidato dall’impianto teorico di Maxwell ma anche dal suo intuito e da molte prove sul campo, in assenza di un modello teorico completo… Già perché l’esperimento di M.&M. da cui siamo partiti, aveva dato, otto anni prima (quattordici anni dopo il lavoro di Maxwell) un sorprendente risultato nullo; testualmente “l’etere non esiste, oppure, se esiste non trasporta la luce”.
“Per comprendere bene quello che successe all’inizio del presente secolo, bisogna riflettere sulla circostanza che la fisica si trovava allora in una situazione assai curiosa: da un canto lo spazio era tutto vuoto per la meccanica, madre fondatrice della fisica, dall’altro era invece tutto pieno per i teorici dell’ottica e dell’elettromagnetismo, che vedevano nelle proprietà fisiche dell’etere la migliore delle spiegazioni possibili per i fenomeni di loro competenza, attraverso l’uso del criterio di analogia.”7
L’utilizzo del criterio di analogia con i fenomeni ondulatori sonori aveva condotto il mondo scientifico (quindi, in potenza, l’intera umanità) nei pressi della soglia, ma occorreva aprire la porta e M&M si disposero a farlo supponendo che la chiave della serratura fosse già nelle loro mani. I presupposti dell’esperimento furono i seguenti:
-
Un metodo prettamente fisico per rilevare l’atmosfera terrestre attraverso il suo comportamento ondulatorio, è quello, da ascoltatori, di porsi in movimento rispetto ad una sorgente sonora, andandole incontro o fuggendo da essa. Ciò vuol dire muoversi rispetto all’etere sonoro in cui si è immersi con una certa velocità che si “compone” con quella propria della perturbazione (340 metri il secondo, circa 1200 km l’ora), sommandosi o sottraendosi ad essa. Fuggendo da un temporale in auto a 100 km l’ora, il rombo del tuono, viaggerà verso l’ascoltatore con una velocità apparente di 1100 km allora, mentre la medesima velocità apparente sarà di 1300 km allora se il moto dell’ascoltatore è opposto, verso il temporale. La medesima composizione delle velocità avviene se l’ascoltatore sta fermo rispetto all’etere sonoro che si muove, è il caso del vento che “anticipa” o “ritarda” la percezione del tuono a seconda che il fulmine sia caduto sopravento o sottovento rispetto all’ascoltatore fermo.
-
In pratica questa è una prova che esiste il l’etere acustico, ovvero l’atmosfera.
-
I due sperimentatori spinsero alle estreme conseguenze quantitative il criterio di analogia e ragionarono in questo modo: l’etere, se esiste, è l’atmosfera elettromagnetica in cui si librano i corpi celesti e si propagano le radiazioni; movimenti dell’osservatore rispetto ed essa, mentre percepisce un flusso ondulatorio luminoso o, viceversa, movimenti di questa atmosfera nei confronti dell’osservatore (un ipotetico vento d’etere) devono comporsi con la velocità di propagazione tipica dell’elettromagnetismo nel cosiddetto vuoto pari a 300.000 km al secondo.
-
Non rimaneva che provare, ma esisteva una difficoltà quasi insormontabile, nessun osservatore poteva essere accelerato a velocità componibili in modo significativo con quella della luce; allora come oggi, nonostante il progresso tecnologico, non esistono sistemi di propulsione abbastanza potenti.
-
Ma era forse possibile affidarsi al “vento”: tutti noi, solidali con il nostro pianeta, orbitiamo intorno al Sole ad una velocità media di 30 km al secondo8, una frazione esigua ma già significativa rispetto a quella della luce, tale da permettere il rilevamento di “vento d’etere” nella direzione di avvicinamento alla sorgente luminosa rispetto ad un’altra direzione di fuga da essa.
Questa misurazione non era facile a realizzarsi. Dopo un primo esperimento fallito dal solo Michelson si aggiunse Morley ed i due si dedicarono a mettere a punto una seconda apparecchiatura perfezionata che, sfruttando la proprietà ottica dell’interferenza, rilevasse la “sfasatura d’onda” di un flusso luminoso a cui, con un sistema di specchi semi riflettenti, venivano fatti compiere due cammini ottici differenti; (semplificando un po’) l’uno contro, l’altro in favore dell’ipotetico “vento d’etere”. Anche il secondo interferometro diede un risultato negativo, nessuna interferenza veniva osservata quando i due flussi luminosi si ricongiungevano giungendo allo schermo, vale a dire che nessuna composizione di velocità con il moto orbitale terrestre veniva rilevata; quindi l’etere non esisteva. Continuò ad esistere, implicitamente, nel gergo tecnico, ed ancor oggi la parola “etere” sopravvive come metafora che si usa, ad esempio, a proposito dell’ormai problematica spartizione delle frequenze tra le numerose applicazioni radio, senza che, peraltro, ciò induca l’umanità tecnologica ad interrogarsi sull’opportunità di sovraffollare, anche per i più infimi utilizzi, questo ente, pur inesistente.
Nel 1894, a soli 37 anni, lasciava la sua esistenza fisica Heinrich Rudolf Hertz, un altro personaggio eminente dell’epopea elettromagnetica, a cui, si direbbe, venne ad apporre il sigillo finale. Nonostante la brevità del suo ciclo, fu epistemologo, linguista e fisico, sia teorico che sperimentale. Sottopose a revisione le equazioni di Maxwell per adattarle alla nuova e scomoda verità che stava affiorando, in forza del primo tentativo fallito da Michelson. Contemporaneamente riuscì a produrre in laboratorio onde radio controllandone la frequenza9. Viene da pensare che fu il primo, tra i grandi fisici, ad accettare l’inesistenza di quell’etere sulle cui tracce si era messa la comunità scientifica ed a non curarsene troppo, proseguendo nel lavoro. Il fatto che egli si sia anche occupato dei fondamenti filosofici della ricerca scientifica, e che, da linguista, avesse praticato il sanscrito fa supporre che disponesse di un’ampia visuale, tale da consentirgli di valutare come quella soglia fatidica non fosse poi così vicina come l’impianto logico dell’esperimento di M&M lasciava intendere: l’interferometro avrebbe potuto rivelare solo un mezzo ancora materiale, una versione tenue ed universale dell’atmosfera terrestre, ma non la qualità spaziale matrice della realtà fenomenica, il Volto che si cela sotto la maschera chiamata “vuoto” oppure “pieno”.
Ormai i tempi erano propizi per altre audaci avventure conoscitive, pur partendo da un modello universale orfano del mezzo eterico e strutturato sulla invariabilità della velocità della luce, implicita nell’esito dell’esperimento M&M.
Note
Pingback:Alcione – il Mistero dell’Origine - TPS Blog - Area italiana