Capita spesso di veder associato il concetto di Spazio a quello di tempo; si parla infatti comunemente di spazio-tempo. E’ una visione normalmente accettata, che contrasta però con il modello di Spazio cui stiamo dando forma in queste pagine.
Qui infatti stiamo ipotizzando che lo Spazio sia un’Entità viva, unitaria ed infinita, i cui punti sono tutti comunicanti e riducibili al Punto, nella quale quindi nessun luogo è lontano, come suggeriva R. Bach in un delizioso libretto così intitolato che ebbe successo anni fa.
La vita dunque appare e si sviluppa nello Spazio e non nel tempo. Lo Spazio vive nell’essere, dove tutto è compresente, mentre il tempo è una percezione sensoriale e quindi relativa. Ciò definisce fra loro una precisa gerarchia di valori.
Il tempo è anche legato al concetto di distanza, che si presenta alle nostre menti come una indiscutibile evidenza: per spostarci da un luogo ad un altro impieghiamo infatti un certo tempo, variabile a seconda della distanza fra i due riferimenti spaziali e della velocità con la quale siamo in grado di effettuare lo spostamento.
La massima velocità fin qui accertata è quella della luce e ci viene insegnato che la luce proveniente dalle creature maestose che solcano il cielo ci arriva, in ragione della distanza che le separa dal nostro pianeta, anche migliaia o milioni di anni dopo essere stata emanata, tanto che quei soli potrebbero essere già estinti quando li osserviamo.
E’ evidentemente un pensiero che ha una sua logica, ma ciascuno in cuor suo sa che non può essere solo così, perché utilizzando la mente del cuore che è spaziale per eccellenza, sappiamo che qui e ora siamo in contatto con tutti i Luminari celesti ovunque essi si trovino e possiamo fondere le nostre luci nelle loro, poiché siamo parte di quelle luci maggiori, che ugualmente vivono in noi.
Simili considerazioni stanno emergendo anche dal mondo scientifico.
Si riportano in appresso brani tratti da un articolo pubblicato nella pagina Cultura – Spettacoli del quotidiano “La Stampa” dell’11 marzo 2013, nel quale il giornalista Claudio Gallo riferisce di un suo colloquio/intervista con il fisico britannico Julian Barbour, autore di un libro intitolato “La fine del tempo”:
“… Al livello più elementare, sostengo che il tempo non esiste perché non si può osservare. Tutto ciò che è possibile vedere sono le cose che cambiano. L’aveva già detto Lucrezio: “Nemmeno il tempo sussiste come entità, sono le cose stesse a creare il senso di ciò che è trascorso”. Noi vediamo che le cose cambiano in modo coordinato e l’orologio ce lo conferma…”
“… Per farsi meglio capire Barbour prende la coppia di triangoli di legno che adopera nelle sue conferenze. Per spiegare il cambiamento basta la varietà delle forme. Supponiamo di avere soltanto tre corpi nell’universo, tre particelle. Muovendosi, in ogni configurazione formano un triangolo diverso: è tutto ciò che possiamo dire, non ci sono altre informazioni, non c’è modo di dire quanto tempo passa fra due configurazioni. Questi istanti sono ciò che chiamiamo “adesso”. Si può vederla come una successione, ma non necessariamente fra un prima e un poi, tutto è potenzialmente qui, ora, non c’è una direzione necessaria come nel nostro tempo intuitivo. L’eternità e l’istante sono i due estremi e anche la stessa cosa…”
“… Non a caso Barbour ha chiamato il suo mondo delle forme Platonia. Anche lui come Platone è convinto che l’essenza della realtà sia geometrica. …Anche se Barbour non si spinge a fare paragoni, la sua fisica ricorda il buddismo, dove la percezione del mondo è condizionata dall’accumulazione dei ricordi che si cristallizzano in un io fittizio; tutto è un gioco combinatorio di rapporti tra forme, nulla esiste per sé…”
“… Il fisico che mi ha influenzato di più, dice Barbour, resta comunque Ernst Mach, con la sua idea che la grandezza dell’universo sia un concetto senza significato. Lui, Dirac, York e Wheeler mi hanno fatto capire che il tempo relativo di Einstein non è il modo migliore per descrivere le cose. Eppure un giorno morirò, pensa la gente davanti alla negazione del tempo. Che cos’è la morte? E’ solo un altro adesso, la sequenza continuerà con la decomposizione del corpo. E poi? Non c’è un poi, è tutto qui, adesso in Platonia…”.
Insieme, con le nostre semplici osservazioni, non stiamo forse costruendo Platonia?
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Lo spazio esiste solo in funzione del tempo e viceversa, non è possibile scinderli.
Oggi la coscienza e la scienza ufficiale propongono l’ipotesi che spazio e tempo siano inscindibili. E’ un’ipotesi appunto, ovvero un gradino della scala che porta all’infinito. La coscienza dell’umanità, e dunque la scienza, procedono in questo modo: per gradi di “certezze” successive attorno alle quali si forma una certa visione della vita.
Nel momento in cui si cerca di porre i pilastri di una nuova cultura/civiltà occorre, poggiando i piedi sulle conquiste attuali che rimangono tali, formulare ipotesi successive.
E’ ciò che si fa da sempre tutti insieme, che ne siamo consapevoli o meno.
Osservando i segni, vediamo che la scienza sta cominciando a percorrere sentieri nuovi (che hanno radici antiche) relativamente alla percezione dello Spazio, e la coscienza, che è la causa di questi sommovimenti interiori, li coglie ed elabora nuove visioni che alimenteranno un mondo nuovo.
E’ uno splendido modo di procedere nell’esplorazione dell’infinito interiore ed esteriore, nel quale l’individuo umanità è strenuamente impegnato, unendo così cielo e terra, ovvero assolvendo il suo compito planetario.