Il valore dell’Amicizia

In occasione della congiunzione fra Nettuno e Venere presentiamo un lavoro del gruppo “Il Tempio della Nuova Era”.

L’ideale del Cristo rinnovi il Mondo

A febbraio, durante la fase ascendente della meditazione mensile sul pensiero seme «L’ideale del Cristo rinnovi il Mondo», nei primi giorni di ricezione, un versetto del Nuovo Testamento echeggiava; il versetto 13,34-35 del Vangelo di Giovanni: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, che anche voi vi amiate gli uni gli altri. In ciò tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri».

Ma come interpretare questo amore reciproco?

In primo luogo l’amore non va concepito come una disposizione interiore, né come un sentimento, ma come il concreto servizio reso in umiltà al fratello nella fede.

 Anche Alice Bailey, in una conferenza del 1936, parlando del Nuovo Gruppo di Servitori del Mondo (vedi Le Fatiche di Ercole, p. 97 ed. ingl.) diceva che: «Vanno incontro al bisogno dei loro fratelli, secondo il messaggio del Cristo “Amatevi gli uni gli altri”; […] l’amore enunciato dal Cristo è l’intelligente comprensione e la valutazione dei bisogni dell’individuo che incontriamo, perché se siamo occupati soltanto nell’essere amorevoli, siamo occupati con la nostra personalità».

In secondo luogo l’amore che i discepoli sono chiamati ad avere gli uni verso gli altri, ha valore di testimonianza davanti al mondo. L’amore reciproco suscita una conoscenza. Tale conoscenza non è soltanto missionaria, ovvero l’amore che lega tra loro i discepoli non è principalmente destinato a rivelare il volto di Cristo agli uomini, sebbene un simile aspetto sia presente. L’amore che i discepoli nutrono gli uni verso gli altri consente al mondo di riconoscerli come tali[1], ovvero come realtà escatologica, vale a dire come il destino ultimo dell’umanità tutta.

Ciò che costituisce il discepolo in quanto tale non è perciò né l’adesione a un credo, né l’appartenenza a un’istituzione, ma l’obbedienza al comandamento dell’amore.

Il comandamento dell’amore (Giov. 15,12-17)

12 «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. 13 Nessuno ha un amore più grande dell’amore di chi depone la propria vita per i suoi amici. 14 Voi siete miei amici, se fate ciò che vi comando. 15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. 16 Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che vi ho scelti e che vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga, affinché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve [lo] conceda. 17 Quel che vi comando è che vi amiate gli uni gli altri».

Il v. 13 ha valore di commento. Facendo eco a una sentenza diffusa nel mondo antico che celebrava l’ideale dell’amicizia, esso descrive l’essenza stessa dell’amore in termini della ferma disposizione a essere presente all’altro al punto da rischiare la vita per lui. Nella filosofia greca, la morte consenziente per gli amici è espressione dell’ideale più nobile[2].

L’amore di Cristo per i suoi, illustrato nel v. 13, è non solo il fondamento della loro esistenza, ma altresì un esempio da seguire. I discepoli, dunque, sono chiamati ad amarsi reciprocamente di un amore dotato della stessa intensità di quello che Cristo ha mostrato ai suoi. L’amore richiesto ai discepoli designa allora un impegno senza compromessi e incondizionato a favore del prossimo.

Per designare la cerchia dei discepoli, il v. 13 ricorre al termine «amico».

Il v. 14 propone una definizione della nozione di amico: amico di Cristo è colui che mette in pratica il suo comandamento. Tuttavia il v. 14 non enuncia una condizione da adempiere per diventarne amici, ovvero che chi osserverebbe i suoi comandamenti sarebbe suo amico. Al contrario, è perché Cristo lo ha amato per primo, perché ha dato la sua vita per lui (vv. 12c-13) e l’ha scelto come amico che il discepolo manifesta la propria appartenenza al Maestro osservando ciò che questi comanda, e cioè l’amore reciproco. Detto altrimenti, chi è amato da Cristo permane in un rapporto positivo con Cristo nella misura in cui l’amore ricevuto sfocia nell’amore da dare.

Il v. 15 prosegue la riflessione sulla condizione di amico di Gesù evocando il mutamento di statuto che la situazione comporta. La differenza qualitativa tra il servo/schiavo e l’amico sta, secondo il v. 15, nel passaggio dal non sapere al sapere. Nelle società antiche, il servo/schiavo è interamente soggetto all’arbitrio del suo padrone; non possiede il sapere che gli permetterebbe di orientare la propria vita. Per contro, il rapporto tra amici è contrassegnato dallo scambio e dalla trasparenza; questo consente la comprensione reciproca e l’acquisizione di una conoscenza che permette di comportarsi liberamente e di dare un senso al proprio destino.

La rivelazione veicolata da Cristo: «tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» è la conoscenza che fa passare dalla condizione di servo/schiavo a quella di amico. Il contenuto non è lo svelamento di segreti apocalittici o del mondo celeste, ma la rivelazione della figura del Padre, che è amore per l’insieme degli esseri umani. La parola che Cristo ha ricevuto dal Padre e che è stata fatta conoscere ai discepoli, consente a questi ultimi di accedere a Dio, e con ciò stesso alla conoscenza che libera. Non sono più schiavi ma amici di Gesù.

Questo mutamento di statuto è sottolineato dal «non vi chiamo più» che apre il v. e che distingue l’essere umano che vive ignaro della rivelazione da colui che a essa ha avuto accesso. Riposa interamente sull’iniziativa di Cristo, come attesta l’espressione «ma vi ho chiamati amici» (v. 15b); la forma del verbo suggerisce che il fatto di diventare amico di Cristo si fonda sull’iniziativa di quest’ultimo nel passato e che determina il presente della fede.

L’antecedenza dell’azione di Cristo è formulata esplicitamente al v. 16a. L’amicizia di cui si è parlato al v. 15 non si caratterizza per un rapporto di uguaglianza e di reciprocità, ma piuttosto di asimmetria. Ricordando l’elezione per grazia di cui i discepoli sono stati oggetto il Cristo giovanneo segnala ai lettori che il loro nuovo statuto non è conseguenza del loro fare – fosse anche di quello del loro amore – ma unicamente della sua iniziativa. L’antecedenza della grazia è in tal modo sottolineata.

Il v. 16b è segnato dal motivo del «portare frutto». L’elezione sfocia nell’attribuzione di una vocazione e di un compito da adempiere. Il «portare frutto» va compreso nei termini dell’impegno esistenziale a praticare il comandamento dell’amore.

In primo luogo, la nozione di amore consiste nell’impegno senza riserve a favore del fratello e della sorella al fine di consentire loro di vivere in pienezza.

In secondo luogo, nella misura in cui un simile impegno assoluto è stato realizzato in modo esemplare da Cristo sulla croce, la sua morte va compresa innanzitutto come atto d’amore per i suoi. Non sono il carattere sostitutivo sacrificale, né il perdono dei peccati a essere sottolineati, ma l’impegno deciso che porta a offrire la vita per gli altri. È questione di un dono produttivo.

La vita nell’amore, ricevuto e donato, porta a un mutamento di statuto. Da servo, il credente accede al rango di amico.

Tale amicizia è definita innanzitutto in termini di conoscenza e non di affettività.

Di nuovo ci viene in aiuto il Tibetano che nel Discepolato nella Nuova Era (vol. 1, p. 22 ed. ingl.) a proposito del lavoro di Gruppo ci dice:

«Quello che conta per la Gerarchia nell’attività degli Ashram, è lo stabilirsi soggettivo di un’interazione e un rapporto di gruppo talmente potenti che si possa scorgere l’unità del mondo allo stato embrionale[3]. Un congiunto potere telepatico o la capacità del gruppo di intuire la verità sono preziosi e abbastanza nuovi. Ciò che è veramente nuovo è la capacità dei gruppi di lavorare e funzionare come unità, con un unico ideale, le cui personalità sono raccolte in un unico slancio in avanti, con un ritmo unificato e dove l’unità è così saldamente stabilita che nulla può generare nel gruppo le caratteristiche esclusivamente umane di separazione o di isolamento personale e di ricerca egoistica.

[…] Ma ricordate che la nota fondamentale del gruppo, per la Loggia dei Maestri, non è il conseguimento o il grado, bensì i rapporti stabili e l’unità di pensiero, nonostante le diversità dei metodi, dell’impegno e dei compiti. La sua qualità è l’amicizia nel senso più puro.

[…] La Fratellanza è una comunità di anime sospinte dal desiderio di servire, spronate da un impulso spontaneo ad amare, illuminate di pura Luce, devotamente fuse e amalgamate in gruppi di Menti che servono, energizzate da un’unica Vita».

Lo sviluppo dell’«Amicizia nel senso più puro» è quindi il nostro compito più prossimo e direi più alla nostra portata.

«Amicizia nel senso più puro»

Ma come possiamo intendere l’espressione «Amicizia nel senso più puro»?

Cominciamo con la definizione che ne dà l’enciclopedia Treccani.

Amicizia: comunità tra due o più persone, unite da affetti e da interessi, ispirata da affinità di sentimenti e da reciproca stima.

Il primo a riflettere filosoficamente sul concetto di Amicizia fu Socrate il quale lo mise in relazione con il concetto di virtù che è ciò che fa buono un uomo e per Socrate coltivare la virtù significa realizzarsi come soggetto. Su queste premesse fonda il concetto di Amicizia, ritenuta un grande bene spirituale.

Il vero amico è l’uomo virtuoso, capace di bastare a se stesso e di avere dominio su di sé.

Platone dedica a questo tema un’intera opera, il dialogo Liside, e innanzitutto distingue l’amicizia (philia) dall’amore (eros). In quest’ultimo predomina l’elemento passionale, nel primo l’elemento razionale. Entrambi hanno però il medesimo fine, ossia il Bene. Ma per Platone è solo tramite la philia che si può raggiungere e conoscere il Sommo Bene.

È Aristotele a dare al concetto una dimensione più umana affermandone l’imprescindibilità; l’uomo, e specialmente il saggio, non può farne a meno. Si costituisce su tre motivi, uno di fondo che è il Bene e due accidentali che sono il Piacevole e l’Utile, ma solo il Bene è garanzia di amicizia vera e autentica, perché in esso si ama l’uomo per quello che è in quanto uomo, cioè per la sua bontà. Per Aristotele l’Amicizia è una virtù o si accompagna alla virtù, ed è fondata non su sensazioni e passioni, ma sull’abitudine e su una libera scelta[4]. Inoltre è «cosa necessarissima per la vita», perché nessuno sceglierebbe di vivere senza amici anche se avesse tutti gli altri beni. L’Amicizia deve essere distinta dall’amore (con cui è collegata, ma non s’identifica, perché più ampia) e dalla benevolenza (a cui più si avvicina). L’amore, infatti, è simile a un’affezione (cioè una modificazione subita), mentre l’Amicizia è un abito, come la virtù; inoltre l’amore è unito a desiderio ed eccitazione (sentimenti estranei all’amicizia) ed è provocato dalla vista del bello e dal piacere che ne deriva. L’Amicizia si distingue poi dalla benevolenza, perché quest’ultima può essere rivolta a sconosciuti e rimanere nascosta, mentre l’Amicizia comporta un rapporto attivo. Più specificatamente, l’Amicizia è caratterizzata dalla reciprocità e dal «vivere insieme», cioè dalla comunanza di ideali e di vita: nasce tra uguali che hanno cose in comune. Suo fondamento può essere l’utile o il piacere reciproco, oppure il bene. Nei primi due casi l’amico è amato per quello che di utile o di piacevole proviene da lui, non per quello che egli è. Si tratta di amicizie rapide e fuggevoli perché le persone non restano sempre uguali, e quando non sono più piacevoli o utili, l’amicizia cessa. Ci sono tanti tipi diversi di amicizia, quante sono le comunità esistenti nella società.

Per Epicuro, invece, l’Amicizia è fondata sull’utile, ma non come noi potremmo immaginare. Egli la definisce come: «il più grande tra tutti i beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita» e mettendo l’utile a suo fondamento dichiara che: «non abbiamo tanto bisogno dell’aiuto degli amici, quanto della fiducia nel loro aiuto». L’amicizia è allora rapporto educativo, aiuto reciproco non solo per soddisfazioni materiali, ma anche per il raggiungimento della pace interiore.

Il concetto dell’Amicizia per Cicerone si basa sulla definizione aristotelica ed è stato assunto dal cristianesimo come proprio: al di sopra dell’amicizia naturale e umana, che è selettiva (tra persone che hanno qualcosa in comune) vi è quella cristiana, estesa all’umanità intera e fondata sull’amore fraterno che congiunge gli uomini fra loro e con Dio, Padre comune. Nella Bibbia Abramo è detto «amico di Dio» e questi parla a Mosè come a un amico; anche Gesù chiama amici, non servi, i discepoli cui comunicò quanto apprese dal Padre (Giovanni 15,15; vedi sopra). Da qui nacque la concezione di un’amicizia soprannaturale, divina, che ebbe risonanze anche fuori del cristianesimo.

  1. Tommaso, sviluppando concetti aristotelici e cristiano-neoplatonici, vede in essa l’essenza della carità infusa, in quanto questa implica la benevolenza mutua tra il giusto, che vuole la gloria di Dio, e Dio, che vuole il bene del giusto e gli conferisce la grazia santificante. Questa concezione venne poi fatta propria specialmente dai domenicani tedeschi e acquistò un’importanza speciale nella mistica tedesca del XIV sec., tra i gruppi degli Amici di Dio.

Nel Rinascimento Montaigne trattò l’Amicizia dal punto di vista psicologico definendola una «servitù volontaria»: è infatti uno dei legami più profondi che si instaurano tra gli esseri umani, perché disinteressato, ed è più forte dell’amore, definito invece come un ardore che dura poco.

Interessante il punto di vista di Simone Weill la quale teorizza che a differenza che nell’amore, in cui l’aspirazione alla fusione è sempre un rischio presente, nell’amicizia circola del vuoto, per cui il calore dell’affetto non toglie la solitudine: «Desiderare di sfuggire alla solitudine è una debolezza. L’amicizia non deve guarire le pene della solitudine, ma duplicarne le gioie». Due amici sono concepiti come due rette parallele che s’incontrano solo all’infinito, in Dio. La vera amicizia ha il suo fuoco fuori di sé, in Dio: Dio è il terzo fra due amici, e l’amicizia umana autentica prende come modello l’amicizia divina, cioè il legame fra le tre persone della Trinità. Tuttavia, l’amicizia fra gli uomini è un’immagine fedele di quella divina solo quando in essa si realizza l’unità soprannaturale dei contrari, in questo caso della necessità e della libertà, della subordinazione e dell’uguaglianza: vi è amicizia pura solo «quando un uomo accetta di guardare da lontano, e senza accostarsi, un essere che gli è necessario quanto il nutrimento».

Da questa rapida e superficiale panoramica emergono alcuni concetti chiave:

  • Il vero amico è l’uomo virtuoso, capace di bastare a se stesso e di avere dominio su di sé. È quindi una personalità integrata
  • l’uomo, e specialmente il saggio, non può fare a meno dell’a.
  • l’a. è fondata sull’abitudine (sulla condivisione di interessi?) e sulla libera scelta
  • è un abito, come la virtù; quindi va esercitata
  • e infatti implica un rapporto attivo
  • è caratterizzata dalla comunanza di ideali e di vita: nasce tra uguali che hanno cose in comune
  • è il più grande tra tutti i beni che la saggezza procura
  • è allora rapporto educativo, aiuto reciproco, non solo per le soddisfazioni materiali, ma anche per il raggiungimento della pace interiore
  • l’a. fra gli uomini è un’immagine fedele di quella divina solo quando in essa si realizza l’unità soprannaturale dei contrari, in questo caso della necessità e della libertà, della subordinazione e dell’uguaglianza

Il dato significativo di partenza deve essere che l’Amicizia, un abito come la virtù, è un dono della saggezza e nella sua forma più pura è possibile solo tra personalità integrate. Fondamentale, quindi, nella relazione con l’altro, avere ben salda la propria centratura verticale per poi costruire un’armonizzazione tra i cuori.

Ricordiamoci di essere l’Avamposto dell’Ashram di Sintesi nella materia densa.

Che la consapevolezza di essere unità dell’Ashram incarnato ci guidi e che le tre regole comportamentali che il M. Tibetano ci fornisce nella Regola 10 del Trattato di Magia Bianca (p. 320 ed. ingl.), ci siano d’aiuto nei rapporti in generale ma in special modo nel rapporto tra Fratelli:

Regola I.
Entra nel cuore del fratello tuo e vedi il suo dolore. Poi parla.
Le tue parole infondano in lui la potente forza di cui ha bisogno per spezzare le sue catene. Compito tuo è di parlare con comprensione. La forza che riceverà lo sorreggerà nel suo lavoro.

Regola II.
Entra nella mente del fratello tuo e leggi i suoi pensieri, ma solo quando i tuoi sono puri. Poi pensa.
I pensieri così creati entrino nella mente del fratello tuo e si fondano con i suoi. Mantieni però il completo distacco, poiché nessuno ha il diritto di dirigere la mente di un fratello. Il solo diritto esistente lo porterà a dire: «Egli ama. Egli è vicino. Egli sa. Egli pensa con me e io sono forte per fare ciò che è giusto». Impara dunque a parlare. Impara dunque a pensare.

Regola III.
Fonditi con l’anima del fratello tuo e conoscilo quale è. Solo sul piano dell’anima ciò può esser fatto. Altrove la fusione alimenta il focolare della sua vita inferiore. Poi focalizzati sul Piano. Così egli vedrà la parte che lui, tu e tutti gli uomini svolgono. Così egli entrerà nella vita e saprà che il lavoro è compiuto.

_____________________________________________

Bibliografia

Alice Ann Bailey,
Le fatiche di Ercole
Il Discepolato nella Nuova Era, vol. 1
Trattato di Magia Bianca

Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe [capitolo Il piccolo principe e la volpe].

Jean Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni (13 – 21), Torino, Claudiana, in pubblicazione.

[1] L’amore reciproco che manifestano i discepoli è infatti il segno che sono in Cristo (cfr. 15,10: «Se osservate i miei comandamenti, dimorerete nel mio amore; come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e dimoro nel suo amore»).

[2] Platone, ad esempio, scrive nel Convivio (179B): «Solo coloro che amano sono disposti a morire per gli altri». Aristotele dichiara, da parte sua, nell’Etica nicomachea (IX, 8, 1169a): «Ed è vero dell’uomo virtuoso che egli compie molte azioni in favore dei suoi amici e della patria, anche se dovesse morire per loro».

[3] Vedi Giov. 13,34-35 e relativo commento sulla funzione escatologica dei discepoli (sopra).

[4] Vedi Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe [capitolo Il piccolo principe e la volpe].

Taggato , . Aggiungi ai preferiti : permalink.

Lascia un commento