La malattia dell’angoscia

(Pubblichiamo quale contributo da parte del sito Lettera e Spirito il seguente scritto della raccolta n° 40 “La malattia dell’angoscia” di René Guénon. Le immagini sono a cura della redazione TPS).

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Oggigiorno è di moda, in certi ambienti, parlare di “inquietudine metafisica”, e perfino di “angoscia metafisica”; queste espressioni, evidentemente assurde, sono ancora di quelle che tradiscono il disordine mentale della nostra epoca; ma, come sempre in casi simili, può essere interessante cercar di precisare che cosa vi sia sotto questi errori e che cosa implichino esattamente tali abusi di linguaggio. È ben chiaro che coloro che parlano in questo modo non hanno la benché minima nozione di che sia veramente la metafisica; ma ancora ci si può chiedere perché essi vogliano trasferire, nel concetto che si fanno di questo dominio loro sconosciuto, questi termini,d’inquietudine e d’angoscia, piuttosto che altri qualsiasi che vi sarebbero altrettanto fuori posto.

Forse occorre vederne la prima ragione, o la più immediata, nel fatto che tali parole rappresentano dei sentimenti che sono particolarmente caratteristici dell’epoca attuale; la predominanza che vi hanno acquisito è d’altronde abbastanza comprensibile, e potrebbe perfino esser considerata come legittima in un certo senso se si limitasse all’ordine delle contingenze, giacché essa è manifestamente fin troppo giustificata dallo stato di squilibrio e d’instabilità di tutte le cose, che va continuamente aggravandosi, e che non è sicuramente atto a dare un’impressione di sicurezza a coloro che vivono in un mondo così agitato. Se vi è in questi sentimenti qualcosa di morboso, gli è che lo stato da cui essi sono causati e mantenuti è anormale e disordinato di per sé; ma tutto ciò, che non è insomma che una semplice giustificazione di fatto, non rende sufficientemente conto dell’intrusione di questi stessi sentimenti nella sfera intellettuale, o almeno in quella che i nostri contemporanei ritengono tale; quest’intrusione dimostra che in realtà il male è più profondo, e che deve trattarsi di qualcosa che si riallaccia a tutto il complesso della deviazione mentale del mondo moderno.

A questo proposito, si può innanzitutto notare che la perpetua inquietudine dei moderni non è altro che una delle forme di quel bisogno d’agitazione da noi spesso denunciato, bisogno che, nella sfera mentale, si traduce nel gusto per la ricerca in se stessa, ossia per una ricerca che, invece di trovare il suo sbocco nella conoscenza come normalmente dovrebbe essere, prosegue indefinitamente senza condurre davvero a niente, e che è peraltro intrapresa senza alcuna intenzione di giungere a una verità cui tanti nostri contemporanei non credono nemmeno. Riconosciamo che una certa inquietudine può avere un posto legittimo al punto di partenza di ogni ricerca, come movente incitante a questa stessa ricerca, giacché è evidente che, se l’uomo fosse soddisfatto della sua condizione d’ignoranza, vi resterebbe indefinitamente e non cercherebbe in nessun modo di uscirne; addirittura sarebbe meglio dare un altro nome a questo genere d’inquietudine mentale: in realtà, essa non è altro che quella “curiosità” che, secondo Aristotele, è l’inizio della scienza e che, beninteso, non ha niente in comune con i bisogni puramente pratici cui gli “empiristi” e i “pragmatisti” vorrebbero attribuire l’origine di ogni conoscenza umana; ma in ogni caso, la si chiami inquietudine o curiosità, è qualcosa che non può più avere alcuna ragion d’essere né di sussistere in alcun modo una volta giunta al termine la ricerca, vale a dire una volta raggiunta la conoscenza, di qualsiasi ordine di conoscenza d’altronde si tratti; a maggior ragione essa deve necessariamente sparire, in modo completo e definitivo, quando si tratti della conoscenza per eccellenza, che è quella del dominio metafisico. Nell’idea di un’inquietudine senza fine, e di conseguenza inservibile a trarre l’uomo dalla sua ignoranza, si potrebbe dunque vedere il marchio di una sorta di “agnosticismo”, che può essere più o meno incosciente in molti casi, ma che non per questo è meno reale: parlare di “inquietudine metafisica” equivale in fondo, lo si voglia o no, sia a negare la stessa conoscenza metafisica, sia perlomeno a dichiarare la propria impotenza a ottenerla, il che praticamente non fa grande differenza; e, quando questo “agnosticismo” è veramente incosciente, s’accompagna abitualmente a un’illusione che consiste nel prendere per metafisica ciò che non lo è affatto, e che non è neppure una conoscenza valevole ad alcun livello, foss’anche in un ordine relativo, vogliamo dire la “pseudo-metafisica” dei filosofi moderni, che è effettivamente incapace di dissipare la benché minima inquietudine, per la ragione che non è una vera conoscenza, e che, proprio al contrario, non può che accrescere il disordine intellettuale e la confusione delle idee di coloro che la prendono sul serio, e rendere la loro ignoranza tanto più incurabile; in questo come da qualsiasi altro punto di vista, la falsa conoscenza è certamente assai peggiore della pura e semplice ignoranza naturale.

angoscia metafisicaCertuni, come abbiamo detto, non si limitano a parlare di “inquietudine”, ma arrivano perfino a parlare di “angoscia”, il che è ancor più grave, ed esprime un’attitudine forse ancor più nettamente antimetafisica se fosse possibile; i due sentimenti sono d’altronde più o meno connessi, in quanto entrambi hanno la loro comune radice nell’ignoranza. L’angoscia, in effetti, non è che una forma estrema e per così dire “cronica” della paura; ora l’uomo è naturalmente portato a provar paura di fronte a ciò che non conosce o non comprende, e questa stessa paura diviene un ostacolo che gli impedisce di vincere la sua ignoranza, giacché lo induce ad allontanarsi dall’oggetto alla cui presenza la prova e al quale ne attribuisce la causa, mentre in realtà questa causa non è tuttavia che in lui stesso; addirittura questa reazione negativa è spessissimo seguita da un vero e proprio odio nei confronti dell’ignoto, soprattutto se l’uomo ha più o meno confusamente l’impressione che si tratti di qualcosa che supera le sue attuali possibilità di comprensione. Se però l’ignoranza può essere dissipata, perciostesso la paura ben presto si dissolverà, come nel ben conosciuto esempio della corda scambiata per un serpente; la paura, e di conseguenza l’angoscia che ne è un caso particolare, è perciò incompatibile con la conoscenza e, se arriva al punto d’essere davvero invincibile, la conoscenza diverrà impossibile, anche in assenza di qualsiasi altro impedimento inerente alla natura dell’individuo; in questo senso si potrebbe dunque parlare, non di una “angoscia metafisica”, ma al contrario di una “angoscia antimetafisica”,giuocante in certo qual modo il ruolo di un vero e proprio “guardiano della soglia”, secondo l’espressione degli ermetici, vietando all’uomo l’accesso al dominio della conoscenza metafisica.

Occorre ancora spiegare più completamente come la paura derivi dall’ignoranza, tanto più che a questo proposito abbiamo recentemente avuto modo di constatare un errore abbastanza sorprendente: abbiamo visto attribuire l’origine della paura a una sensazione d’isolamento, e questo in un’esposizione basata sulla dottrina vêdântica, mentre questa al contrario insegna espressamente che la paura è dovuta alla sensazione di una dualità; e infatti, se un essere fosse veramente solo, di che potrebbe aver paura? Si dirà forse che può aver paura di qualcosa che si trova in lui stesso; ma anche questo implica che, nella sua attuale condizione, vi siano in lui degli elementi che sfuggono alla sua comprensione, e di conseguenza una molteplicità non unificata; il fatto che sia isolato o meno non cambia d’altronde niente e non interviene in nessun modo in un caso simile. D’altra parte, non si può invocare validamente, a favore dell’isolamento come spiegazione, la paura istintiva avvertita nell’oscurità da molte persone, segnatamente dai bambini; questa paura è dovuta in realtà all’idea che nell’oscurità possano esservi delle cose che non si vedono, quindi che non si conoscono, e che per questa stessa ragione sono temibili; se al contrario l’oscurità fosse considerata come priva di qualsiasi presenza sconosciuta, la paura sarebbe senza oggetto e non si produrrebbe. È vero che l’essere che prova paura cerca d’isolarsi, ma appunto per sottrarvisi: egli assume un atteggiamento negativo e si “ritrae” come per evitare ogni possibile contatto con ciò che teme, e da ciò provengono senza dubbio la sensazione di freddo e gli altri sintomi fisiologici che accompagnano abitualmente la paura; ma questa specie di difesa irriflessiva è d’altronde inefficace, giacché è ben evidente che, qualunque cosa un essere faccia, non può isolarsi realmente dall’ambiente nel quale è posto dalle sue stesse condizioni d’esistenza contingente, e che, finché si considera come circondato da un “mondo esteriore”, gli è impossibile mettersi interamente al riparo dagli attacchi di quest’ultimo. La paura non può essere causata che dall’esistenza di altri esseri, che, in quanto sono altri, costituiscono tale “mondo esteriore”, oppure di elementi che, sebbene incorporati allo stesso essere, non sono meno estranei ed “esteriori” alla sua coscienza attuale; ma l’“altro”, come tale non esiste che per effetto dell’ignoranza, poiché ogni conoscenza implica essenzialmente un’identificazione; si può dunque dire che più un essere conosce, meno vi è per lui d’“altro” o d’“esteriore”, e che, nella stessa misura, la possibilità della paura, possibilità d’altronde tutta negativa, è per lui abolita; e, finalmente, lo stato di “solitudine” assoluta (kaivalyia), che è al di là di ogni contingenza, è uno stato di pura impassibilità. Notiamo incidentalmente, a questo proposito, che l’“atarassia” stoica non rappresenta che una concezione deformata di uno stato del genere, giacché pretende d’applicarsi a un essere che in realtà è ancora sottomesso alle contingenze, il che è contraddittorio; sforzarsi di considerare le cose esteriori come indifferenti, per quanto sia possibile nella condizione individuale, può costituire una sorta d’esercizio preparatorio in vista della “liberazione”, ma niente di più, giacché, per l’essere che è veramente “liberato”, non vi sono cose esteriori; un esercizio del genere potrebbe insomma essere considerato come un equivalente di quel che, nelle “prove” iniziatiche, esprime in una forma o nell’altra la necessità di superare innanzitutto la paura per giungere alla conoscenza, che in seguito renderà tale paura impossibile, poiché non vi sarà allora più nulla che possa aver presa sull’essere; ed è evidente come occorra assolutamente evitare di confondere i preliminari dell’iniziazione con il suo risultato finale.

Un’altra osservazione che, benché secondaria, non è priva d’interesse, è che la sensazione di freddo e i sintomi esteriori cui abbiamo fatto cenno poco fa si producono anche, senza che l’essere che li prova abbia coscientemente paura in senso proprio, nel caso in cui si manifestino influenze psichiche dell’ordine più basso, come per esempio nelle sedute spiritiche e nei fenomeni di “ossessione”; addirittura in questi casi, si tratta della stessa difesa sub-cosciente e quasi “organica”, al cospetto di qualcosa d’ostile e nello stesso tempo d’ignoto, almeno per l’uomo ordinario che non conosce effettivamente se non ciò che è suscettibile di cadere sotto i sensi, vale a dire le sole cose del dominio corporeo. I “timori panici”, che si producono senza alcuna causa apparente, sono anch’essi dovuti alla presenza di certe influenze non appartenenti all’ordine sensibile; essi sono peraltro spesso collettivi, il che va ancora contro la spiegazione della paura con l’isolamento; e non si tratta necessariamente, in questo caso, di influenze ostili o d’ordine inferiore, giacché può anche succedere che un’influenza spirituale, e non solamente un’influenza psichica, provochi un terrore di questo tipo presso dei “profani” che l’avvertono vagamente senza nulla conoscerne della sua natura; l’esame di questi fatti, che insomma non hanno niente d’anormale checché ne possa pensare l’opinione corrente, non fa che confermare ancora che la paura è realmente proprio causata dall’ignoranza, e per questa ragione abbiamo ritenuto opportuno segnalarli di sfuggita.

Per ritornare al punto essenziale, possiamo dire ora che coloro che parlano di “angoscia metafisica” dimostrano con ciò, innanzitutto, la loro totale ignoranza della metafisica; inoltre, la loro stessa attitudine rende invincibile quest’ignoranza, tanto più che l’angoscia non è una semplice passeggera sensazione di paura, ma una paura divenuta in qualche modo permanente, insediata nello “psichismo” stesso dell’essere, e per questo può esser considerata come una vera e propria “malattia”; finché non la si supera, costituisce propriamente, alla stessa stregua di altri gravi difetti d’ordine psichico, una “squalificazione” nei confronti della conoscenza metafisica.

D’altra parte, la conoscenza è il solo rimedio definitivo contro l’angoscia, come pure contro la paura sotto tutti le sue forme e contro la semplice inquietudine, poiché queste sensazioni non sono che delle conseguenze o dei prodotti dell’ignoranza, e pertanto la conoscenza, una volta raggiunta, le distrugge interamente nella loro stessa radice e le rende d’ora innanzi impossibili, mentre, senza di essa, anche se sono allontanate momentaneamente, possono sempre riapparire a seconda delle circostanze. Se si tratta della conoscenza per eccellenza, quest’effetto si ripercuoterà necessariamente in tutti i domini inferiori, e così queste stesse sensazioni svaniranno anche nei confronti delle cose più contingenti; infatti, come potrebbero colpire colui che, vedendo tutte le cose nel principio, sa che, quali che siano le apparenze, esse non sono in definitiva che degli elementi dell’ordine totale? Così accade per tutti i mali di cui soffre il mondo moderno: il vero rimedio non può venire che dall’alto, ossia da una restaurazione della pura intellettualità; fintantoché si cercherà di porvi rimedio dal basso, ossia accontentandosi d’opporre delle contingenze ad altre contingenze, tutto quel che si pretenderà di fare sarà vano e inefficace; ma chi potrà capirlo mentre è ancora in tempo?

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Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, Éditions Traditionnelles, Paris, 1952, cap. III: La maladie de l’angoisse.

 

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2 risposte a La malattia dell’angoscia

  1. Bianca V. dice:

    Ad un certo punto, nelle fasi iniziali del Sentiero, l’individuo in via di risveglio percepisce che l’iniziale disagio esistenziale, il fastidio per molti convenzionalismi sociali, il rifiuto del consumismo e delle “regole dell’apparire”, la ricerca di sobrietà, l’aspirazione a nuovi modi di vivere ispirati alla condivisione sono, in realtà, spesso, le prime manifestazioni dell’avanzamento dell’ anima, che cerca l’Origine.
    I rosacrociani definiscono questa fase del processo ‘divina inquietudine’, intuendone il valore di agente della “Legge di Evoluzione”, alla quale tutto il nostro universo è sottoposto, sia per quanto riguarda l’aspetto materiale che quello spirituale.

    Lo psichiatra sociale Erich Fromm afferma, a proposito della mancanza di senso che pervade l’anima dell’uomo contemporaneo:

    “La persona comune oggigiorno è una straniera nell’universo: a livello più profondo essa sente la sua depressione, la sua noia, il vuoto che pervade la sua anima. Sono questo vuoto e questa disaffezione che chiedono soddisfazione e vogliono essere riempiti dal rumore, dal possesso di cose materiali e dal divertimento.”

    Con chiara determinazione Aurobindo sostiene la natura ‘spirituale’ del senso dell’Ombra che pervade l’anima nei momenti iniziali della Ricerca:

    “…non si può negare, e nessuna esperienza spirituale lo negherà, che questo è un mondo non ideale e non soddisfacente, fortemente segnato dal marchio dell’imperfezione, della sofferenza e del male. In realtà, questa percezione è, in un certo modo, il punto di partenza della spinta spirituale, eccetto per quei pochi ai quali l’esperienza spirituale viene spontaneamente, senza esservi forzati dall’acuto, schiacciante, doloroso e alienante senso dell’Ombra che incombe sull’intero campo di questa esistenza manifestata.”
    (Aurobindo, L’enigma di questo mondo, da Lettere sullo Yoga).

  2. Eleonora A. dice:

    La conoscenza sì, è la soluzione. Ma occorre comprendere di che conoscenza si tratta: ben distinta dall’informazione intellettuale e più vicina alla Visione, ove comprensione della mente e risposta del cuore compongono un insieme inscindibile e sintetico

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