Comunicazione e potenzialità dell’Essere

Secondo il pensiero filosofico di Heidegger, l’uomo è un esserci e l’apertura del sé nell’esperienza è un essere nel mondo perché, relazionandosi con gli altri e con le cose, egli conosce il suo essere e il suo poter essere.

Niente di più vero perché l’esistenza è possibilità e le possibilità sono create dall’uomo che può, a seconda di come le usa e le comprende, trascorrere una vita reale o una vita fasulla.

L’esserci è apertura al mondo, comprensione di esso e rapporto con esso nella sua totalità e questo presuppone l’interagire e il prendersi cura degli altri esseri per realizzare il progetto che procede dal suo stesso esserci.

Comunicare con l’altro significa produrre una relazione per creare insieme l’aspetto del nostro esserci che si determina nella scelta delle possibilità e ha il suo motore nell’ottica con cui guardiamo il mondo.

La prima apertura a tutte le possibilità, è la posizione percettiva fondamentale, quella che viviamo quando siamo una cosa sola con le nostre emozioni, i nostri pensieri, le nostre parole; fin qui è tutto normale, ma può capitare, e spesso capita, di raccogliersi tanto in se stessi da chiudere la porta a tutto quello che sta fuori di noi rendendoci incapaci di comunicare con l’altro, fino al punto estremo di ignorare il mondo.th7TTJDRZS

Inevitabilmente a tutti gli uomini capita di entrare in relazione con gli altri e di dialogare con essi comunicando in diversi modi, in quel momento non siamo più noi con noi stessi ma noi con gli altri,  si entra in un dialogo, in posizione di ascolto e di domanda, siamo in qualche modo fuori da noi, ma ancora in rapporto con noi stessi. Quando riusciamo a sintonizzarci sullo stato d’animo degli altri, quando entriamo nella loro prospettiva e il loro linguaggio, anche se per poco, è anche il nostro, allora entriamo in empatia : la relazione continua ad essere fra Sé ben distinti, ma si aggiunge la comprensione del mondo  dell’altro.

ComunicazioneMantenere la distinzione, la giusta distanza è indispensabile per comprendere il prossimo e per conservare intatto il proprio Sé.

Quando, al contrario, ci si identifica completamente con l’emozione e con il mondo altrui, si finisce per perdersi e per annullarsi.

Per questo motivo, è essenziale avere ben chiara la differenza fra empatia ed identificazione perché l’empatia stabilisce la relazione e il contatto con l’altra persona, mentre l’identificazione mortifica il proprio Sé e lo disperde in uno diverso.

Oltre a queste, esiste una terza posizione che è quella di chi osserva.

Quando, come osservatori, ascoltiamo e guardiamo i nostri fratelli che comunicano, siamo in una prospettiva ancora diversa perché l’osservazione richiede silenzio, ascolto, distacco emotivo e apertura di tutti i sensi.

Se teniamo “svegli” i canali della percezione riusciamo a catturare una grande varietà di informazioni sullo sviluppo delle relazioni comunicative e così possiamo notare che, anche in questa posizione, si annida un pericolo perché, se la si usa troppo  spesso, ci si adatta volentieri ad osservare gli altri che parlano e può capitare che l’abitudine all’osservazione prenda il sopravvento sulle altre posizioni percettive tanto da perdere pian piano contatto con le nostre emozioni e finire per far da spettatori alla vita degli altri.

Per ovviare a questo pericolo, e per controllare le nostre emozioni e le nostre azioni, è essenziale divenire anche osservatori di se stessi prendendo così le distanze dalle disarmonie e dagli ostacoli prodotti dalla nostra personalità.

Possiamo incontrare ancora un altro modo di percepire l’esperienza di relazione ed è la quarta posizione, l’Insieme con gli altri, il Noi.

Quando ci facciamo circondare da una totalità,  quando usiamo espressioni come noi siamo, noi pensiamo, noi vogliamo, il sé individuale non è più uno, ma molteplice e unico allo stesso tempo e ci si percepisce come parte di un tutto, come un punto di vista più grande che ricomprende anche il nostro singolo Io.  thNVWLR3JB

Tuttavia esistono contesti dove l’uso del Noi è funzionale all’appartenenza di un mondo condiviso, come per esempio tra i seguaci di una confessione religiosa o nei gruppi sociali che si percepiscono come entità uniche e distinte, in questi casi il Noi mette in un angolo le altre posizioni percettive e ci si perde in una massa indefinita che conduce alla triste dimenticanza del Sé e dell’autentico Noi.

Come abbiamo visto possiamo procedere e muoverci in differenti posizioni e ognuna di esse è una diversa visione sull’esperienza, una fonte di ricchezza che apre sempre nuove possibilità. Quando impariamo a “saltare” con agilità dall’una all’altra senza farci intrappolare, siamo capaci di raccogliere informazioni ed emozioni che, altrimenti, andrebbero perdute.

Creare una comunicazione che funzioni significa attuare una modalità di ascolto consapevole, e questo presuppone avere l’attenzione rivolta verso noi stessi e verso gli altri.

Nel contempo si può affermare che sarebbe veramente utopistico pensare di poter comunicare sempre e comunque da un perfetto equilibrio, come credere di trovarci di fronte a un’altra persona e essere totalmente coscienti di capirla e di conoscere la sua essenza.

E’ necessario comprendere che la finalità di una comunicazione consapevole non è quella di far fare all’altro quello che noi desideriamo, di manipolarlo a nostro piacimento, bensì di fargli arrivare la nostra verità nel modo più chiaro possibile, senza le distorsioni che possono esserci quando un comunicatore o un ascoltatore hanno delle prevenzioni dovute a blocchi energetici.

Per cui se siamo consapevoli di guardare le cose da un punto di vista ansioso, possiamo fare qualcosa per modificare il nostro stato e ritornare in equilibrio, e se la tensione non dipende da noi ma dal nostro interlocutore abbiamo comunque la possibilità di agire in modo che la comunicazione sia consonante, e precisamente cambiando il piano della comunicazione, cioè portando consapevolmente la nostra attenzione a un livello differente, a un’altra frequenza in cui le cose accadono in modo completamente diverso: possiamo per esempio abbandonare il giudizio e passare all’accettazione.  th8KRRMWS4

In questo modo, pur non perdendo la nostra identità, riusciamo ad entrare in empatia con l’altro e, comprendendo il suo mondo, arriviamo a diventare Noi facendo il primo passo per raggiungere un giorno la Comunione, che dovrebbe essere lo scopo, il fine ultimo di tutte le creature che, non per questo, devono omologarsi e perdere la loro identità ma semmai spargere nel Tutto le proprie inestimabili risorse.

“La Comunione è lo scopo di se stessa. È la meta di tutte le coscienze, e quando l’insieme delle entità coinvolte in un Sistema la ha conseguita l’obiettivo comune è raggiunto. Durante lo sviluppo la meta, ossia la Comunione, è sempre presente, continuamente ottenuta, mai dimenticata. È sempre viva e magnetica. Sulla sua spiaggia s’infrangono ondate di esistenze formali, che vi scaricano le loro energie: pertanto la potenza della Comunione è sempre crescente e la sua realtà sempre più prossima e percettibile.”

“La Comunione splende sempre più, secondo un processo che non ha fine. In ogni istante vi s’accendono lumi nuovi, e nessuno si estingue, e lo splendore delle varie luci si fa più intenso.”

Comunione, dunque, non significa uniformità: al contrario, è la fonte di innumerevoli varianti, ciascuna delle quali, a sua volta, è variabile.*

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*Enzio Savoini – “Lettura e Commento di ‘Comunione’ – Scritti inediti -Aprile 2001”.

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